Buonasera gentili lettori.
Oggi l'anteprima che andiamo a farvi conoscere è forse una delle più attese del nuovo anno. Infatti è una super news che uscirà a febbraio dalla casa editrice Newton Compton e noi non vediamo l'ora di leggere e farvi sapere le nostre impressioni.
Conosciuta nelle terre inglesi con il nome di "Infinity + one" in Italia la traduzione del titolo sarà concordante con il fratellino britannico e sarà "Infinito + 1" scritta dalla penna di Amy Harmon, di cui abbiamo già recensito un suo precedente lavoro "Sei il mio sole anche di notte" (recensione QUI).
Vi lasciamo ad una piccola trama e alla traduzione, personalissima di AnniDiNuvole, del prologo e dell'inizio del primo capitolo. Buon divertimento.
Trama: Quando due improbabili alleati diventeranno fuori legge, riusciranno due innamorati a sconfiggere il fato a loro sfavore?
Bonnie Rae Shelby è famosissima, ricca, bellissima. Decisamente famosa. E Bonnie Rae Shelby vuole morire.
Finn Clyde non è nessuno, è a pezzi, è intelligente e impossibilmente cinico. Tutto ciò che desidera è un'occasione.
Una ragazza. Un ragazzo. Un'azione dettata dalla compassione. Una serie di bizzarre circostanze e una scelta: girarsi e andarsene o allungare una mano e rischiare tutto?
Con quella possibilità l'orologio inizia a far muovere le lancette per un ragazzo con un passato e per una ragazza che non vuol affrontare il futuro. Scandenti secondi per un'avventura sconvolgente, ricca di divertimento, di rivelazioni e incomprensioni.
Il mondo è contro di loro, contro due persone così diverse che intraprendono un viaggio che non cambierà solo le loro vite ma per cui dovranno pagarne un prezzo.
Infinito + 1 parla di raggiungere le stelle, la fama e la fortuna. Parla di gabbie luccicanti e barre di ferro. Parla di trovare un amico in un volto sconosciuto e scoprire l'amore in luoghi più strani.
Prologo: l’origine
La televisione era accesa,
squillante, sintonizzata su un qualche canale di intrattenimento. La
presentatrice sedeva a una scrivania come per apparire più sveglia o per far
sembrare il programma più credibile, ma lo spray autoabbronzante e le ciglia
finte smontavano sia la scrivania, che la sua espressione seria, e così decise
di spegnerla.
Poi vide il suo volto
apparire sullo schermo, e lasciò cadere fiaccamente la mano al suo fianco.
Fissò la foto di se stesso che sorrideva al viso rovesciato di lei. Il suo
braccio le avvolgeva la vita, e una delle mani della ragazza era appoggiata sul
suo petto, mentre gli sorrideva a sua volta.
In seguito, l’immagine
alla tv si trasformò in una vecchia foto in bianco e nero, e lui la guardò,
pietrificato e impotente, mentre la conduttrice del
programma cominciava ad esporre il suo caso.
“Bonnie Carter incontrò
Clyde Barrow in Texas, nel gennaio del 1930. Era il culmine della Depressione e
la gente era povera, disperata, senza speranza, e Bonnie Carter e Clyde Barrow
non facevano eccezione. Clyde aveva vent’anni e Bonnie diciannove, ed erano
dell’idea che nessuno dei due avesse molto da offrire all’altro. Il primo
marito di Bonnie, infatti, era morto da tempo, e Clyde non aveva niente, se non
qualche precedente penale e la capacità di sopravvivere, ma nonostante ciò
divennero inseparabili. Nei quattro anni successivi, tra permanenze in prigione
e una vita di fughe, si sarebbero aperti un sentiero a suon di fuoco nel
polveroso Sud, rapinato banche, minimarket e distributori di benzina, ucciso
ufficiali di polizia oltre che una manciata di civili, e non si sarebbero mai
fermati a lungo in un solo luogo. Un rullino ed una collezione di poesie scritte
da Bonnie, trovati in un nascondiglio a Joplin, nel Missouri, hanno dato vita
alla leggenda dei due giovani fuorilegge, che si è fatta spazio nel panorama
della storia americana e nell’immaginazione di spettatori provenienti da tutto
il mondo.
Erano giovani, selvaggi e
innamorati, e non avevano riguardi per nessuno, se non l’uno per l’altro.
Fuggivano dalla legge, consapevoli
che la loro morte era inevitabile, e nel maggio del 1934 incontrarono il loro
destino. Infatti, in seguito ad un’imboscata in una solitaria strada della Louisiana
e a centotrenta colpi di pistola diretti alla loro auto, i due amanti caddero
insieme, i loro corpi crivellati da proiettili, le loro vite e la frenesia per
il crimine concluse. Morti, ma non dimenticati.
Ma la storia si sta
ripetendo? Abbiamo anche noi la nostra versione moderna di Bonnie e Clyde? Due
amanti in fuga che dietro di sé non lasciano che il caos?
Anche se non identiche, le
somiglianze tra le due storie sono degne di nota. E viene da domandarsi se, in
questa storia, la colpa non sia, almeno in parte, di così tanta fama e fortuna,
ad una così giovane età. Invece della povertà, che faceva da scenario ai Bonnie
e Clyde degli anni ’30, questa volta la situazione è diametralmente opposta.
Ma in entrambe le storie
abbiamo ragazzi giovani, cresciuti troppo in fretta, esposti molto presto ad
una dura realtà e che infine si sono ribellati al sistema.
Si tratta di scene viste e
riviste: una carriera promettente, un talento scioccante. E rimaniamo tutti qui
fermi, a chiederci: cosa è successo esattamente a Bonnie Rae Shelby?”
Capitolo 1 – Angolo di Depressione
Undici giorni prima.
“Ho sentito che tutti
urlano quando cadono, anche se si tratta di un salto.”
La voce proveniva dal
nulla, facendo sobbalzare me e sussultare il mio stomaco, come se mi stessi
davvero lasciando andare e stessi cadendo nel vuoto, attraverso la nebbia. Non
riuscivo a vedere nessuno. La foschia era fitta, il che mi diede l’opportunità
di scivolare nel bianco vellutato, senza che nessuno lo sapesse.
Lo spesso strato di nebbia
mi stava ingannando, la densità dell’aria mi cullava in un senso di falsa
sicurezza, avvolgendomi come se volesse afferrarmi, come se potessi
nascondermici anche solo per un po’.
Umida, mi sussurrò che
lasciarmi andare sarebbe stato facile, indolore, che una nuvola mi avrebbe
semplicemente avvolto, che non sarei caduta. Ma una parte di me voleva cadere.
Era quella la ragione per cui mi trovavo lì. E non riuscivo a togliermi dalla
testa quella canzone.
“Oh mia cara Minnie Mae, in paradiso, così dicono,
E non ti porteranno mai via da me, mai più.
Sto arrivando, arrivando, arrivando
Grazie agli angeli che hanno spianato il cammino.
E così dico addio alle vecchie coste del Kentucky”
“Scendi da lì”. Sentii
nuovamente la voce, eterea. Non avrei saputo dire nemmeno da che direzione
provenisse. Era bassa, roca, apparteneva ad un uomo. A giudicare dal timbro si
trattava di un uomo anziano, forse dell’età di mio padre. Papà avrebbe provato
a dissuadere qualcuno dal lasciarsi cadere dal ponte. Forse lo avrebbe fatto
cantando. Sorrisi appena al pensiero, la voce di mio padre dominava i miei
primissimi ricordi. Ricca, genuina, che si accordava bene con il vibrato e i
gorgheggi che erano diventati la mia firma sonora. All’inizio io cantavo sempre
la melodia principale, a papà spettava la parte bassa, da tenore, e la nonna ci
aiutava con le note più alte. Cantavamo per ore. Era quello che facevamo, che
sapevamo fare. Era quello per cui vivevamo.
Ma io non volevo più
vivere per questa ragione.
“Se non scendi tu, salgo
io”. Sobbalzai di nuovo. Mi ero dimenticata della voce, me ne ero dimenticata
così rapidamente. La mia mente era annebbiata come l’aria attorno a me, come se
l’avessi respirata tutta.
Pronunciò la parola
“scendi” strascicando le lettere, pareva che avesse detto “fendi”, e non
riuscivo a capire da che zona potesse provenire. La mia mente fu preda della
confusione per qualche minuto. Boston. Esatto. Mi trovavo a Boston. La notte
prima ero stata a New York, e il giorno prima ancora a Philadelphia. Ed era
Detroit la città della settimana prima? Provai a ricordare tutte le tappe,
tutte le città, ma si confondevano tra loro. Raramente visitavo le città nelle
quali capitavo. Un luogo era semplicemente l’estensione di un altro. Improvvisamente
fu di fianco a me, cercava di stare in equilibrio sulla ringhiera, le sue
braccia si reggevano al cornicione, e imitava la mia postura.
Era alto. Gli presi le
misure velocemente, facendo perno sulle mie braccia alzate e avvinghiate alla
trave di supporto sopra la mia testa.
Sentii il mio cuore cadere
e atterrare con un tonfo nauseante sul fondo dello stomaco, poi rimbalzò; avevo
lo stomaco vuoto, niente di nuovo. Mi domandai se l’uomo fosse uno stupratore o
un assassino. Poi scrollai le spalle, stanca; se davvero avessi temuto di
essere stuprata o ammazzata, avrei potuto semplicemente lasciarmi cadere.
Problema risolto.
“I tuoi genitori sanno
dove sei?” Ecco di nuovo quella parlata strascicata. Non assomigliava per
niente alla voce di mio padre, dopotutto. Papà era nato e cresciuto nelle
colline del Tennessee, e in Tennessee non si strascicano le parole. Lasciamo
che le nostre lingue si arrotolino attorno alle ‘r’, come attorno a una
caramella al limone, prima di rilasciarle.
“Posso chiamare qualcuno
per te?” Tentò di nuovo quando non risposi.
Scossi la testa ma
continuai a non guardarlo. Mantenni lo sguardo fisso di fronte a me, perso
nella nebbia. Mi piaceva il nulla vestito di bianco, mi dava conforto. Volevo
avvicinarmici, per questo inizialmente mi ero arrampicata sulla ringhiera.
“Senti ragazzino, non
posso lasciarti qui”. Ancora quella pronuncia strana. Ero affascinata dal suo
accento, ma continuavo a sperare che se ne andasse.
“Non sono un ragazzino,
quindi sì che puoi lasciarmi qui”. Per la prima volta gli rivolsi la parola,
notando che io, rispetto a lui, pronunciavo chiaramente tutte le lettere di
tutte le parole. Sentii il suo sguardo posarsi su di me, quindi lo guardai a
mia volta. Lo osservai per bene.
Indossava un berretto
fatto a maglia, portato basso sulla fronte in modo che coprisse le orecchie,
come lo portavo io. Faceva freddo fuori. Io avevo rubato il mio ad un agente
della scorta, insieme ad una felpa gigante con il cappuccio che qualcuno aveva
lasciato in spogliatoio.
Il suo cappello gli stava
bene, era suo, non lo aveva rubato, ne ero sicura.
Ciuffi di arruffati
capelli biondi spuntavano sotto il berretto, ma le sue sopracciglia erano folte
e scure quasi quanto il filato; aveva anche dei tagli neri sopra gli occhi dal
colore indecifrabile. Nell’oscurità della nebbia tutto sembrava essere
semplicemente di svariate sfumature di grigio. Il suo sguardo era fisso e la
bocca leggermente contratta, come se lo avessi sorpreso.
Apparentemente ci eravamo
sbagliati entrambi: io non ero un ragazzino e lui non era anziano. Forse aveva
soltanto qualche anno più di me, forse.
“No, non sei un ragazzino”
disse, e il suo sguardo sorpreso si spostò velocemente sul mio petto per
verificare che fossi, effettivamente, una donna.
Alzai le sopracciglia e il
mento, pretendendo che lui facesse lo stesso. E lo fece, quasi immediatamente,
prima di parlare di nuovo, con la voce misurata e il tono mite.
“Le possibilità sono
poche: se cadi, muori. Cadere potrebbe farti sentire meglio, ma atterrare no.
L’atterraggio ti farà stare di merda. E se non muori, desidererai di essere
morta, e di non esserti lasciata cadere, e griderai in cerca di aiuto. Ma sarà
troppo tardi, perché io non ho nessuna intenzione di saltare dietro di te,
Texas”.
“Non mi pare di avertelo
chiesto, Boston” gli risposi stancamente, senza correggerlo a proposito delle
mie origini. Evidentemente tutti quelli che avevano una parlata strascicata
venivano dal Texas.
Il suo sguardo si fermò
per qualche istante sui miei stivali e poi si spostò sui miei occhi, in modo
calcolatore.
“Sappiamo entrambi che non
lo farai, quindi smetti di fare tanta scena e scendi di lì. Ti porterò dove
vuoi”.
Nessun commento:
Posta un commento