giovedì 12 novembre 2015

Anteprima: After you


Salve ragazzi e bentornati a una nuova #anteprima, stranamente non di domenica.
Ebbe si, oggi parliamo di "After you" di Jojo Moyer, seguito di "Me before you" conosciuto in Italia come "Io prima di te". 
AnniDiNuvole, sulla linea della giornata a tema che si stà svolgendo su Facebook, ha voluto recensire il primo volume (Recensione QUI) e poi passare alla super anteprima del primo capitolo del libro che vedremo tra le news a maggio 2016, edito da Mondadori.
Non preoccupatevi, ci siamo noi con le super anteprime per tamponare alle vostre curiosità. 
Ma non perdiamoci in chiacchiere e cominciamo!




TramaLou Clarke ha molte domande. Tipo come è che è finite a lavorare nel bar dell’aeroporto, trascorrendo ogni turno a guardare le persone che volano verso nuovi posti. O perché l’ appartamento che possiede da un anno ancora non lo sente come una casa sua. Se la sua affiatata famiglia riuscirà mai a perdonarla per quello che ha fatto diciotto mesi fa. E riuscirà mai a superare l’amore della sua vita. Quello che Lou sa per certo è che qualcosa deve cambiare. Poi, una notte, succede. Ma lo sconosciuto davanti alla porta del giardino ha le risposte che Lou cerca o semplicemente altre domande? Chiudere la porta significa continuare la sua vita in modo semplice, ordinato, sicuro. Aprirla, invece, vuol dire rischiare tutto. Ma Lou una volta ha fatto una promessa di vivere. E per mantenerla, deve invitarli ad entrare…



Capitolo 1

L’omone seduto in fondo al bar sta sudando. Tiene la testa bassa sul suo doppio Scotch e ogni tanto dà un’occhiata dietro di lui, verso la porta, e una leggera patina di sudore brilla sotto il fascio di luce. Emette un lungo, tremolante sospiro travestito da singhiozzo, per poi girarsi di nuovo verso il suo drink.
“Ehi, mi scusi?”
Alzo lo sguardo dai bicchieri che sto lucidando.
“Posso averne un altro?”           
Voglio dirgli che non è per niente una buona idea, che non lo aiuterà, che potrebbe persino fargli oltrepassare il limite. Ma è un uomo robusto, mancano quindici minuti alla chiusura e, stando alle regole del locale, non ho motivo di dirgli di no. Quindi mi dirigo verso di lui e prendo il suo bicchiere portandomelo davanti agli occhi. Lui fa un cenno alla bottiglia.
“Doppio”, dice, e fa passare una mano grassa sul suo viso madido.
“Sono sette sterline e venti per favore.”
Mancano quindici minuti alle undici di martedì sera, e il Shamrock and Clover, il pub irlandese dell’aeroporto di East City, irlandese quanto Mahatma Gandhi, sta chiudendo. Il bar chiude dieci minuti dopo l’ultimo decollo, e in questo momento ci siamo solo io, un ragazzo concentrato sul suo laptop, le donne schiamazzanti al tavolo due, e un uomo che sta succhiando un doppio Jameson’s  in attesa del volo SC107 per Stoccolma oppure del DB224 per Monaco, l’ultimo dei quali ha un ritardo di quaranta minuti.
Sono di turno da mezzogiorno perché Carly ha mal di pancia e se ne è andata a casa. Non mi dispiace. Non dispiace mai lavorare fino a tardi. Canticchiando tra me “Celtic Pipes of the Emerald Isle vol. III” mi avvicino e raccolgo i bicchieri delle due donne, che stanno osservando attentamente un qualche video dal cellulare. Ridono con la stessa risata di chi è ben allenato a farlo.
“Mia nipote. Ha cinque giorni.” dice la donna bionda non appena raggiungo il tavolo per prendere il suo bicchiere.
“Adorabile.” Sorrido. I bambini mi sembrano tutti dei teneri fagottini.
 “Vive in Svezia. Non ci sono mai stata. Ma devo andarci per vedere la mia prima nipotina, non credi?”
“Stiamo brindando alla salute della piccola.” Scoppiano di nuovo a ridere. “Ti unisci a noi per un bicchiere? Suvvia, concediti una pausa per cinque minuti. Non finiremo mai questa bottiglia in tempo.”
“Oops! Ci risiamo. Dai, Dor.” Avvertite dal display, raccolgono le loro cose e probabilmente sono l’unica ad accorgersi di un leggero barcollamento quando si sostengono a vicenda per dirigersi verso il metal detector. Poso i loro bicchieri sul bancone, scrutando il locale alla ricerca di qualcos’altro da lavare.
“Non ti ha mai tentato?” La donna più bassa è tornata indietro per recuperare la sua sciarpa.
“Mi scusi?”
“Uscire da qui, alla fine di un turno di lavoro. Saltare su un aereo. Io lo farei.”  Ride di nuovo. “Ogni maledetto giorno.”
Sorrido, quel tipo di sorriso professionale che non trasmette niente, e mi rigiro verso il bancone.
Intorno a me i negozi stanno chiudendo per la notte, le rumorose serrande che si abbassano sopra le costosissime borse e i Toblerone, regali dell’ultimo secondo. Le luci tremolano sui gate tre, cinque e undici, gli ultimi viaggiatori del giorno strizzano gli occhi nell’oscurità della notte. Violet, la signora delle pulizie congolese, spinge il suo carrello verso di me, la sua camminata un lento ondeggiare, le suole in gomma delle sue scarpe che scricchiolano sul marmo scintillante.
“Buonasera tesoro.”
“Buonasera Violet.”
“Non dovresti essere qui a quest’ora, dolcezza. Dovresti essere a casa con i tuoi cari.”
Mi dice esattamente la stessa cosa tutte le sere.
“Tra non molto vado.” Le do la stessa risposta tutte le sere. Soddisfatta, annuisce e prosegue per la sua strada.
Il ragazzo con il laptop e il Sudaticcio Bevitore di Scotch se ne sono andati. Finisco di sistemare i bicchieri e conto l’incasso, controllandolo due volte per assicurarmi che i conti tornino. Scrivo tutto sul libro mastro, controllo le pompe, annoto la merce che va riordinata. È allora che noto il cappotto dell’omone ancora sopra il suo sgabello. Mi avvicino e alzo lo sguardo verso il monitor. Anche se decidessi di correre per restituire a quell’uomo il suo cappotto, il volo per Monaco avrebbe appena completato l’imbarco. Guardo di nuovo e poi vado lentamente verso il bagno degli uomini.
“Ehilà, c’è qualcuno?”
La voce che emerge è strozzata, al limite dell’isteria. Spingo energicamente la porta. Il Bevitore di Scotch  è riverso sopra il lavello che si sciacqua il viso. La sua faccia è bianca cadaverica.
“Stanno chiamando il mio volo?”
“Sta per partire. Probabilmente ha solo pochi minuti.”
Faccio per andarmene, ma qualcosa mi ferma. L’uomo mi sta fissando, i suoi occhi due fessure piccole e piene d’ansia. Scuote la testa. “Non posso farlo.” Afferra una salvietta di carta e si tampona il viso. “Non posso salire su quell’aereo.”
Aspetto.
“Dovevo partire per andare ad incontrare il mio nuovo capo, ma non posso. Non ho avuto il coraggio di dirgli che ho paura di volare.” Scuote la testa. “Non ho paura. Sono terrorizzato.”
Lascio che la porta si chiuda dietro di me. “Qual è il suo nuovo lavoro?”
L’uomo sbatte le palpebre. “Ehm… in campo automobilistico. Sono il nuovo direttore regionale della Hunt Motors.”
“Sembra un incarico importante”, dico, “Ha… le redini.”
“Ho lavorato duramente per ottenere questo incarico”, deglutisce rumorosamente, “Ecco perché non voglio morire in una palla di fiamme incandescenti. Veramente, non voglio morire in un aereo che precipita in fiamme.”
Sono tentata di fargli presente che non si tratterebbe di un aereo che precipita in fiamme, piuttosto di un aereo che scende rapidamente di quota, ma suppongo che non sarebbe molto di aiuto. Si sciacqua di nuovo la faccia e io gli porgo un’altra salvietta di carta.
“Grazie.” Emette un altro sospiro tremolante e si rialza, cercando di ricomporsi. “Scommetto che non hai mai visto un uomo adulto comportarsi come un idiota prima d’ora, vero?”
“Circa quattro volte al giorno.”
I suoi occhi minuscoli si spalancano.  
“Circa quattro volte al giorno devo tirare fuori qualcuno dal bagno degli uomini. E di solito è perché hanno paura di volare.”
Sgrana gli occhi.
“Ma sa, come dico a tutti gli altri, nessun aereo è mai precipitato da questo aeroporto.”
Sistema il suo collo nel colletto.
“Davvero?”
“Nemmeno uno.”
“Nemmeno… un piccolo incidente sulla pista?”
Alzo le spalle.
“A dire il vero è piuttosto noioso qui. Le persone partono, vanno dove devono andare e tornano qualche giorno dopo.” Mi appoggio alla porta per tenerla aperta. Questi bagni non hanno mai un buon odore la sera. “E comunque, personalmente, penso che possano accadere cose peggiori.”
“Beh, suppongo sia vero.” Ci riflette su e mi guarda di sbieco. “Quattro al giorno, eh?”
“A volte di più. Ora, se non le spiace, devo davvero tornare al bancone; non è il massimo farmi vedere mentre entro ed esco dal bagno degli uomini così spesso.”
Mi sorride, e per un attimo riesco a percepire come sarebbe il suo aspetto in altre circostanze. Un uomo naturale e vivace. Un uomo spensierato. Un uomo al culmine della sua carriera in campo di produzione di pezzi di auto.
“Penso che abbiano chiamato il suo volo.”
“Pensi che starò bene?”
“Starà bene. È una compagnia aerea molto sicura, e si tratta di un viaggio di un paio d’ore. Guardi, il volo SK491 è atterrato da cinque minuti. Se va fino al suo gate, incrocerà gli steward e le hostess di volo che tornano a casa, e li vedrà ridere e chiacchierare. Per loro, salire su questi aerei è più o meno come prendere un autobus. Alcuni di loro lo fanno due, tre, quattro volte al giorno. E non sono stupidi. Se non si sentissero sicuri, non ci salirebbero, non crede?”
“Come prendere un autobus.” Ripete.
“Forse è perfino più sicuro.”
“Beh, questo è ovvio.” Alza le sopracciglia. “Girano un sacco di idioti in strada.”
Annuisco.
Lui si sistema la cravatta. “Ed è un lavoro importante.”
“Sarebbe un peccato perdere questa opportunità per un motivo così insignificante. Starà benissimo appena si sarà abituato a stare lassù.”
“Forse sì. Grazie…”
“Louisa,” dico.
“Grazie Louisa. Sei una ragazza molto gentile.” Mi guarda superficialmente, “Suppongo che tu non… ti piacerebbe… bere un caffè insieme, qualche volta?”
“Penso di aver sentito chiamare il suo volo, signore” dico, e apro la porta per lasciarlo passare.
Lui annuisce, per mascherare l’imbarazzo finge di cercare qualcosa in tasca.
“Giusto. Certo. Beh… Meglio che vada allora.”
“Si goda le redini.”
Due minuti dopo che se n’è andato, scopro che aveva dato di stomaco sporcando tutto il terzo gabinetto.

Arrivo a casa all’una e un quarto ed entro nell’appartamento silenzioso. Mi metto i pantaloni del pigiama e una maglietta a manica lunghe usata, poi apro il frigo, tiro fuori una bottiglia di vino bianco e ne verso un goccio nel bicchiere. Non è più frizzantino. Studio l’etichetta e poi capisco che devo averlo aperto la notte prima, per poi dimenticare di richiuderlo e decido che non è una buona idea pensarci troppo. Mi accascio sulla sedia con la bottiglia.
Sul tavolino ci sono due biglietti. Uno è dei miei genitori, che mi augurano un buon compleanno. Quel “tanti auguri” da parte di mia mamma è come sale su una ferita. L’altro è di mia sorella, che sta suggerendo che lei e Thorn vengano da me per il weekend. Ha sei mesi. Sulla segreteria ci sono due messaggi, uno è del dentista. L’altro no.

Ciao Luisa. Sono Jared. Ci siamo incontrati al Dirty Duck? Beh, ci siamo baciati… [risata imbarazzata]. Solo che, sai… Mi è piaciuto. Forse potremmo farlo di nuovo? Hai i miei contatti…

Quando non c’è più nulla nella bottiglia, penso di comprarne un'altra, ma non voglio uscire ancora una volta. Non voglio che Samir del negozio sempre aperto dica una delle sue barzellette sulla mia lista infinita di bottiglie di Pinot Grigio. Non voglio parlare con nessuno. Improvvisamente sono esausta, ma è quel genere di stanchezza che mi dice che se vado a letto non dormirò. Penso brevemente a Jared e alla strana forma delle sue unghie.
Perché questa cosa mi disturba? Fisso la parete spoglia del salotto e improvvisamente capisco che quello di cui ho veramente bisogno è l’aria. Ho bisogno di aria.
Apro la finestra dell’ingresso e, in modo instabile, mi arrampico sull’uscita antincendio fino a che non sono sul tetto.
La prima volta che sono venuta quassù, nove mesi fa, l’agente immobiliare mi ha mostrato come i precedenti proprietari avevano fatto un piccolo terrazzino con giardino, con qualche pianta in vaso e una piccola panchina. “Ufficialmente non è suo, ovviamente” ha detto, “ma il suo è l’unico appartamento con un accesso diretto. Penso che sia davvero carino. Potrebbe farci una festa!”. L’avevo guardato, chiedendomi se avevo l’aspetto di qualcuno che desse feste. Le piante erano morte già da tempo. A quanto pare non ero molto brava a curare le cose.
Ora ero sul tetto e guardavo l’oscurità londinese sotto di me. All’incirca un milione di persone stavano vivendo, respirando, mangiando, litigando. Un milione di vite completamente diverse dalla mia. Una pace diversa dal solito.
Le luci scintillavano mentre i suoni della città si disperdevano nell’aria: il rumore dei motori, delle porte che sbattevano… Alcune miglia a sud il rumore delle eliche di un elicottero che stava ispezionando il parco cittadino. Da qualche parte una sirena.
C’era sempre una sirena.
“Non ci impiegherà molto a sentirsi a casa” aveva detto l’agente immobiliare. Per poco, non avevo riso.
La città mi sembra aliena come sempre. Ma, in questi giorni, ovunque mi trovi provo una sensazione strana. Esito, poi faccio un passo e sono sul parapetto, le braccia all’infuori come un funambolo leggermente ubriaco. Un piede dopo l’altro, mi accosto al cemento, la brezza mi fa venire la pelle d’oca sulle braccia. All’inizio, quando mi sono trasferita qui, quando tutto faceva tremendamente male, mi sfidavo a camminare da un lato all’altro del condominio. Quando lo raggiungevo avrei riso e il suono si sarebbe disperso nell’aria.
Hai visto? Sono qui – ancora viva – proprio sull’orlo del baratro! Sto facendo quello che mi hai detto!
Era diventata un’abitudine segreta: io, il profilo della città, la consolazione data dal buio, l’anonimato e la consapevolezza che qui nessuno sapeva chi fossi. Alzo la testa, assaporo la brezza notturna, sento delle risatine provenire dal basso, il suono attutito di una bottiglia che si rompe, le macchine incolonnato verso la città, vedevo il rosso dei fari posteriori, come un rifornimento di sangue automobilistico. Solamente tra le 3 e le 5 del mattino si poteva respirare un po’ di pace: gli ubriachi erano collassati a letto, gli chef dei ristoranti si erano tolti l’uniforme bianca e i pub avevano chiuso le porte
Solo sporadicamente il silenzio di quelle ore era interrotto dalle petroliere, dall’apertura della panificio ebraico sulla strada, dal leggero tonfo dei camioncini che consegnavano i giornali che mollavano le loro palle di carta. So i minimi movimenti della città perché non dormo più.
Al White Horse, un locale pieno di hipster e di abitanti della Est End londinese, la chiusura avverrà più tardi e una coppia sta litigando fuori dal locale e dall’altra parte della città il General Hospital sta rimettendo in sesto i feriti e gli ammalati e di quelli che ce l’hanno fatta a superare la notte. Qua in cima c’è solo aria, l’oscurità e da qualche parte il cargo FedEx da LHR a Pechino e altri mille viaggiatori, come il tizio che ha bevuto lo Scotch al pub, stanno raggiungendo una nuova destinazione.
 “Diciotto mesi. Giorno dopo giorno per diciotto mesi. Quando sarà abbastanza?” dico all’oscurità. Ed eccolo, la rabbia inaspettata, la sento montare di nuovo.
Faccio due passi, guardandomi i piedi. “Perché questa non mi sembra vita. Non sembra nulla”.
Due passi. Altri due. Stanotte raggiungerò l’angolo.
“Non mi hai dato una cazzo di vita, vero? Assolutamente no. Hai semplicemente distrutto quella vecchia. L’hai frantumata in tantissimi pezzettini”. Distendo le braccia, sentendo l’aria fresca della sera contro la mia pelle e capisco che sto piangendo di nuovo. “Fottiti, Will” sussurro. “Vai a farti fottere per avermi lasciato”.
Il dolore, come una marea improvvisa, monta di nuovo. È intenso, schiacciante. Mi fa piangere. E mentre mi sento affondare, dall’ombra una voce dice: “Non credo dovresti stare lì”. Mi giro e scorgo un visino pallido sull’uscita antincendio, gli occhi scuri sgranati. In preda allo shock, il piede scivola sul parapetto, il mio peso si trova improvvisamente dal lato sbagliato. Il cuore barcolla un secondo prima che lo faccia anche il mio corpo. E poi, come un incubo, volo leggerissima negli abissi dell’aria notturna, le gambe cadono sopra la mia testa mentre sento un grido che potrebbe essere il mio…
Crunch.
E poi è tutto nero.

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