domenica 13 dicembre 2015

Anteprima: Twilight Reimagined (Life and Death)


Wela lettori! 
Buona domenica, e oggi è davvero "buona". Oggi super delle super #anteprime
Come dal titolo avete già immaginato... Twilight sta ritornando. 
Nono, non parleremo di Edward Cullen e Bella Swan, ma di una nuovissima storia sempre targata Stephanie Meyer, sotto l'hashtag Vampiri! 
Ebbene si, per gli amanti della storia più famosa, chiacchierata e discussa degli ultimi anni, si prospetta un ottimo anno nuovo. Infatti la nuovissima storia, sarà reperibile dai 14 gennaio negli scaffali come un racconto allegato alla sbrilluccicante e nuovissima versione del vecchio e conosciutissimo Twilight. 
In esclusiva per AnniDiNuvole, traduciamo per voi le primissime pagine dell'opera. 
Buona lettura!


TramaNello Stato di Washington c’è la cittadina più piovosa d’America. La conoscono bene Edward Cullen e Bella Swan, i protagonisti di Twilight. Lei, dolce ragazza qualunque; lui, giovane misterioso con un segreto inconfessabile. La loro storia d’amore ha conquistato i cuori di tutti. 
Ma cosa succederebbe se i ruoli si ribaltassero? Se non fosse lui la creatura straordinaria, l’eroe meraviglioso dotato di capacità sovrumane ma… lei? Beaufort è un ragazzo alto e dinoccolato trasferitosi dall’Arizona. Quando incontra la bellissima Edythe, non sa che la fortissima attrazione che prova per lei potrebbe essere la sua rovina…

Spettacolare riscrittura di Twilight, Life and Death riapre le porte del piccolo mondo di Forks. Ricalcando il palcoscenico della storia d’amore più amata degli ultimi anni e ardenti di quella stessa passione che ha stregato milioni di fan in tutto il mondo, Beaufort e Edythe conquisteranno il lettore con il calore rassicurante di un’atmosfera conosciuta e la sorpresa di un finale completamente nuovo.


Il suo destino è terribile, ma sublime.
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari
  
PROLOGO

Non ho mai pensato molto alla mia morte, nonostante negli ultimi mesi abbia avuto molte ragioni per farlo; ma se anche l’avessi fatto, non l’avrei mai immaginata così.
Guardai attraverso la lunga stanza, negli occhi scuri della cacciatrice, e lei guardò me con allegria.
Almeno sarebbe stato un buon modo per morire, al posto di qualcun altro, qualcuno che amavo. Nobile, persino. Doveva pur contare qualcosa.
Sapevo che se non fossi mai andato a Forks, non sarei stato in procinto di morire; ma per quanto fossi terrorizzato, non riuscivo a pentirmi di quella decisione. Quando la vita ti offre un sogno che va ben oltre ogni tua aspettativa, non è giusto dispiacersi quando giunge alla fine.
La cacciatrice sorrise in modo amichevole mentre si apprestava ad uccidermi.

A PRIMA VISTA

17 gennaio 2005

Mia madre mi accompagnò all’aeroporto con i finestrini abbassati. Sebbene in ogni altro luogo fosse Gennaio, a Phoenix facevano ventiquattro gradi e il cielo era di un azzurro brillante. Indossavo la mia maglietta preferita, quella dei Monty Python con le rondini e la noce di cocco che mamma mi aveva regalato due anni prima, a Natale. Mi era diventata un po’ piccola, ma non aveva importanza. Presto non avrei avuto più bisogno di magliette.
Nella Penisola Olimpica, a Nord-ovest dello stato di Washington, esiste un piccola città chiamata Forks, coperta da una quasi costante coltre di nubi. In questa insignificante città piove più che in qualsiasi altro posto negli Stati Uniti d’America. È da questa città e dalla sua deprimente tetraggine che mia madre ed io eravamo scappati quando avevo solo pochi mesi. È in questa città che ero stato costretto a passare un mese ogni estate, fino ai miei quattordici anni. Quello è stato l’anno in cui ho finalmente iniziato a dare degli ultimatum. Nelle ultime tre estati, invece, era stato mio padre, Charlie, a venire in vacanza da me in California per due settimane.
Eppure, mi ritrovavo esiliato a Forks per il resto della mia educazione superiore. Un anno e mezzo. Diciotto mesi. Pareva una pena detentiva. Diciotto mesi. Sarebbe stata dura. Quando sbattei la porta della macchina dietro di me fece un suono che ricordava lo sferragliare delle barre di ferro che si richiudono. Ok, forse è un po’ troppo melodrammatico. Ho una immaginazione troppo fervida, come mia madre amava ricordarmi e, ovviamente, questa era una mia scelta. Esilio autoimposto.
Non rendeva la cosa più facile.
Amavo Phoenix. Amavo il sole e il caldo secco e la grande ed irregolare città; e amavo vivere con mia madre, dove c’era bisogno di me.
“Non devi farlo per forza,” mi disse la mamma, per la centesima volta, prima che raggiungessi il Metal Detector.
Mia madre dice che sembriamo così uguali che potrei usarla come specchio per rasarmi. Non è totalmente vero, sebbene non assomigli per niente a mio padre. Il mento della mamma è appuntito e le sue labbra sono piene, cosa che io non ho. Ma abbiamo esattamente gli stessi occhi. Su di lei sembrano quelli di un bambino, così grandi e di un azzurro pallido, la fanno sembrare mia sorella piuttosto che mia mamma. Ci succede tutte le volte e, anche se lei finge che non sia così, le fa piacere. Su di me l’azzurro pallido è meno giovanile e più… insignificante.
Fissando quei grandi occhi preoccupati, così simili ai miei, provai panico. Mi ero preso cura di mia madre per tutta la mia vita. Voglio dire, deve esserci stato un tempo, probabilmente quando portavo ancora i pannolini, in cui non ero stato incaricato di pagare le bollette o controllare le scartoffie o cucinare o, in generale, essere intestatario di tutto, ma non riuscivo a ricordarlo.
Lasciare mia madre a cavarsela da sola era davvero la cosa giusta da fare? Così era sembrato durante i mesi in cui avevo combattuto per prendere questa decisione, ma in quel momento sembrava totalmente sbagliato.
Ovviamente adesso aveva Phil, quindi probabilmente le bollette sarebbero state pagate in tempo, ci sarebbe stato cibo nel frigorifero, benzina nella macchina e qualcuno da chiamare in caso si fosse persa. Non aveva più così tanto bisogno di me.
Voglio andare,” mentii. Non ero mai stato un abile bugiardo, ma questa bugia l’avevo ripetuta così tante volte ultimamente che sembrava quasi convincente.
“Di’ a Charlie che lo saluto.”
“Lo farò.”
“Ci vediamo presto,” mi promise. “Puoi tornare a casa ogni volta che vuoi, tornerò non appena avrai bisogno.”
Ma sapevo quanto le sarebbe costato farlo.
“Non preoccuparti per me,” insistetti. “Sarà fantastico. Ti voglio bene, mamma.”
Mi abbracciò forte per un minuto e poi attraversai i metal detector e lei sparì.
Il volo da Phoenix a Seattle sarebbe durato tre ore, poi un’altra ora in un piccolo aereo fino a Port Angeles, e infine un’ora di macchina in direzione di Forks. Volare non mi aveva mai infastidito, era dell’ora in macchina con Charlie, invece, che mi preoccupavo.
Charlie si era comportato in maniera piuttosto cortese durante l’intera faccenda. Sembrava genuinamente contento che andassi a vivere con lui, più o meno permanentemente, per la prima volta. Mi aveva già registrato alla scuola superiore e mi avrebbe aiutato a prendermi una macchina.
Sarebbe comunque stato strano. Nessuno dei due poteva essere definito estroverso, probabilmente una caratteristica essenziale per vivere con mia madre. Ma a parte questo, cosa c’era da dire? Non era che avessi fatto segreto di quello che pensavo di Forks.

Quando atterrai a Port Angeles, pioveva. Non era un cattivo auspicio, era solo inevitabile. Avevo già detto addio al sole.
Charlie mi aspettava con la volante. Mi ero aspettato anche questo. Charlie era, per le buone persone di Forks, il capo della Polizia Swan. La mia motivazione principale per voler acquistare una macchina, nonostante la mia serissima mancanza di fondi, era che odiavo andare in giro per la città in una macchina con le luci rosse e blu sulla capotta. Niente rallenta il traffico come uno sbirro.
Incespicai giù dall’aereo verso l’imbarazzante abbraccio a metà di Charlie.
“È bello vederti, Beau,” disse, sorridendo mentre, automaticamente, mi stabilizzava. Ci demmo una pacca sulla spalla a vicenda, imbarazzati, e poi facemmo un passo indietro.
“Non sei cambiato molto. Come sta Renée?”
“La mamma sta alla grande. Anche per me è bello vederti, papà.” Si presumeva che non lo chiamassi Charlie in sua presenza.
“Sei davvero convinto di lasciarla?”
Sapevamo entrambi che questa domanda non riguardava la mia personale felicità. Riguardava il se mi stessi sottraendo alla mia responsabilità di prendermi cura di lei. Era la ragione per cui Charlie non le aveva mai fatto battaglia per la mia custodia: sapeva che lei aveva bisogno di me.
“Sì, non sarei qui se non ne fossi sicuro.”
“Mi sembra giusto.”
Avevo con me solamente due grandi borsoni. La maggior parte dei vestiti che avevo in Arizona erano troppo permeabili per il clima di Washington. Io e la mamma avevamo dato fondo alle nostre risorse per integrare il mio guardaroba invernale, ma non consisteva comunque di molto. Potevo portarli entrambi, ma Charlie insistette per prenderne uno. Persi un po’ l’equilibrio, non che normalmente fossi molto bilanciato, specialmente dopo lo scatto di crescita. Il mio piede inciampò contro il bordo della porta d’uscita e la borsa oscillò e colpì il tipo che cercava di entrare.
“Oh, mi scusi.”
Il ragazzo non era molto più grande di me, ed era molto più basso ma si fece avanti verso il mio petto, con il mento rialzato. Potevo vedere che aveva tatuaggi su entrambi i lati del collo. Una piccola donna con i capelli tinti di un nero inteso mi guardò minacciosamente dal suo fianco.
Mi scusi?” Ripeté, come se le mie scuse fossero state in qualche modo offensive.
“Ehm, sì?”
Poi la donna notò Charlie, che era in uniforme. Charlie non ebbe bisogno di dire nulla, si limitò a guardare il ragazzo, che retrocesse di mezzo passo e immediatamente sembrò molto più giovane, e poi la ragazza, le cui appiccicose labbra rosse misero il broncio. Senza un’altra parola, mi bypassarono e si diressero verso il piccolo terminal.
Sia io che Charlie scuotemmo le spalle allo stesso tempo. Era divertente come avessimo modi di fare simili avendo passato così poco tempo insieme. Forse era genetica.
“Ti ho trovato una buona macchina, davvero economica,” annunciò Charlie quando entrammo nella volante e ci avviammo.
“Che tipo di macchina?” Domandai, sospettoso del modo in cui aveva detto “Ti ho trovato una buona macchina” invece che dire solo “ho trovato una buona macchina.”
“Beh, è un pick-up in realtà, uno Chevrolet.”
“Dove l’hai trovato?”
“Ti ricordi di Bonnie Black, che sta giù a La Push?” La Push è la piccola riserva indiana vicino alla costa.
“No.”
“Lei e suo marito venivano a pesca con noi in estate,” mi suggerì.
Questo spiegava perché non me la ricordavo. Sono molto bravo a bloccare i ricordi dolorosi fuori dalla mia memoria.
“È in sedia a rotelle ora,” Charlie continuò quando non risposi, “quindi non può più guidare e si è offerta di vendermi il suo pick-up per poco.”
“Di che anno è?” Potevo vedere dal suo cambio di espressione che questa era la domanda che sperava non gli facessi.
“Beh, Bonnie gli ha fatto fare molti lavori al motore… ha solo qualche anno, davvero.”
Pensava che mi sarei arreso così facilmente?
“Quando lo ha comprato?”
“Lo ha comprato nel 1984, credo.”
“Lo ha comprato nuovo?”
“Beh, no. Penso fosse nuovo nei primi anni sessanta, o al massimo alla fine dei cinquanta,” ammise impacciatamente.
“Cha… papà, non so davvero niente di macchine. Non sarei in grado di aggiustare niente se si rompesse, e non potrei permettermi un meccanico…”
“Beau, sul serio, quel coso va alla grande. Non ne fanno più così adesso.”
Il coso, pensai tra me… aveva delle possibilità. Come soprannome, almeno.
“Quanto economico è economico?” Dopotutto, era quello che importava per chiudere l’affare.
“Beh, figliolo, te lo avrei già comprato. Come regalo di benvenuto.” Charlie guardò lateralmente, verso di me, con espressione speranzosa.
Wow. Gratis.
“Non ce n’era bisogno, papà. Me la sarei comprato da solo.”
“Non mi dispiace. Voglio che tu sia felice qui.” Guardò la strada davanti a sé mentre lo disse. Charlie non era mai stato a suo agio ad esprimere le sue emozioni ad alta voce. Un’altra cosa che avevamo in comune. Quindi guardai dritto davanti a me quando risposi.
“È fantastico, papà. Grazie, lo apprezzo davvero.” Non c’era bisogno di aggiungere che stava parlando di qualcosa di impossibile. Non avrebbe giovato a nessuno che lui soffrisse insieme a me. E a pick-up donato non si guarda in bocca, o meglio nel motore.
“Beh, ecco, di niente,” mormorò, imbarazzato per i miei ringraziamenti.
Scambiammo qualche altro commento sul tempo, che era bagnato, e questa fu più o meno tutta la conversazione. Fissammo fuori dai finestrini.

Era bellissimo, probabilmente, o qualcosa del genere. Tutto era verde: gli alberi erano coperti di muschio, sia sui tronchi che sui rami, e il terreno era coperto di felci. Persino l’aria, filtrata dalla foglie, diventava verde. Era troppo verde, un pianeta alieno.
Alla fine arrivammo a casa di Charlie. Viveva ancora nella piccola casa con due stanze da letto che aveva comprato con mia madre durante i primi giorni del loro matrimonio. Quelli erano gli unici giorni che il loro matrimonio aveva avuto, i primi. Lì, parcheggiato nella strada di fronte alla casa che non era mai cambiata, stava il mio nuovo, nuovo per me, pick-up. Era di un color rosso smunto, con paraurti grossi e rotondi ed una cabina tondeggiante.
E me ne innamorai. Non era proprio una macchina adatta a un ragazzo, quindi fui abbastanza sorpreso dalla mia reazione. Insomma, non sapevo nemmeno se avrebbe funzionato, ma mi ci vedevo. Inoltre, era uno di quei solidi mostri di ferro che non si danneggiano mai; il tipo che puoi vedere sulla scena di un incidente con la vernice intoccata, circondato dai pezzi della macchina sconosciuta che ha appena distrutto.
“Wow, papà, è fantastico! Grazie!” L’entusiasmo era vero in quel caso. Non solo il pick-up era stranamente figo, ma non avrei dovuto camminare per tre chilometri sotto la pioggia per andare a scuola la mattina. O accettare un passaggio sulla volante che, ovviamente, era lo scenario peggiore.
“Sono contento che ti piaccia,” disse Charlie burbero, di nuovo in imbarazzo.

Mi ci volle un solo viaggio per portare tutte le mie cose al piano superiore. Avevo la stanza ad ovest, quella che si affacciava sul giardino di fronte. La stanza era familiare, era mia da quando ero nato. Il pavimento di legno, le pareti azzurre, il soffitto a punta, le tende a quadretti bianche e blu sbiadite alle finestre; facevano tutti parte della mia infanzia. Gli unici cambiamenti che Charlie avesse mai fatto mentre io crescevo erano consistiti nel sostituire la culla con un letto e aggiungere una scrivania. Sulla scrivania ora c’era un computer di seconda mano, con il filo del telefono per il modem fissato al pavimento fino alla presa del telefono più vicina. Era una delle richieste di mia madre, così che potessimo stare in contatto. La sedia a dondolo dei miei giorni di bambino era ancora nell’angolo.
C’era solo un piccolo bagno in cima alle scale, avrei dovuto dividerlo con Charlie, ma ne avevo già condiviso uno con mia mamma ed era stato molto peggio. Lei aveva molte più cose e resisteva accanitamente a tutti i miei tentativi di organizzarle.
Una delle caratteristiche migliori di Charlie è che non gironzola. Mi lasciò da solo a disfare i bagagli e a sistemarmi, cosa che sarebbe stata totalmente impossibile per mia madre. Era bello stare soli, non dover sorridere e sembrare a proprio agio. Era un sollievo fissare la pioggia battente fuori dalla finestra e abbandonarsi a pensieri negativi.

La scuola superiore di Forks aveva solo trecentocinquantasette, ora trecentocinquantotto, studenti. Solo nella mia vecchia classe, a casa, c’erano più di settecento persone. Tutti i ragazzi qui erano cresciuti insieme, i loro nonni erano stati infanti insieme. Sarei stato il nuovo ragazzo dalla grande città, qualcuno da fissare e di cui bisbigliare.
Forse se fossi stato uno dei ragazzi fighi avrei potuto farla funzionare. Arrivare tutto popolare, tipo il re del ballo di benvenuto, ma non c’era modo di nascondere il fatto che non fossi quel tipo di ragazzo. Non ero la star del football, non il presidente della classe, non il ragazzaccio con la motocicletta. Ero il bambino che sembrava avrebbe potuto essere bravo a basket, finché non avevo iniziato a camminare. Il bambino che veniva rinchiuso negli armadietti, finché al secondo anno delle superiori non ero cresciuto di venti centimetri. Il bambino che era troppo tranquillo e troppo pallido, che non sapeva nulla di giochi al computer o macchine o statistiche del baseball o di qualsiasi altra cosa di cui avrei dovuto essere appassionato.
A differenza degli altri ragazzi, non avevo molto tempo libero per gli hobby. Avevo un libro dei conti da far quadrare, uno scarico intasato da sturare e la spesa settimanale da fare.
O così era stato.
Quindi non mi relazionavo bene con le persone della mia età, forse la verità era che non mi relazionavo bene con le persone, punto. Persino mia madre, la persona alla quale ero più vicino di qualunque altra sul pianeta, non mi aveva mai capito davvero. A volte mi domandavo se i miei occhi vedessero le stesse cose che gli altri vedevano con i loro. Forse quello che io vedevo come verde per tutti gli altri era rosso. Forse sentivo odore di aceto quando gli altri sentivano quello del cocco. Forse c’era un problema col mio cervello. Ma la causa non aveva importanza, quello che importava era l’effetto. E l’indomani sarebbe stato solo l’inizio.

Non dormii bene quella notte, nemmeno dopo che finalmente riuscii a far tacere la mia testa. Il costante rumore della pioggia e del vento sul tetto non volevano sparire in sottofondo. Mi misi il vecchio piumone sopra la testa e più tardi aggiunsi anche il cuscino, ma non riuscii ad addormentarmi fino a dopo mezzanotte, quando la pioggia finalmente diventò una quieta pioggerellina.
Una nebbia spessa fu tutto quello che vidi fuori dalla mia finestra la mattina seguente e percepii che la mia claustrofobia stava salendo furtivamente. Non si riusciva mai a vedere il cielo a Forks, era un po’ come quella gabbia che mi ero immaginato.
La colazione con Charlie fu silenziosa. Mi augurò buona fortuna per la scuola. Lo ringrazia sapendo che la sua speranza era uno spreco di tempo, la buona fortuna tendeva ad evitarmi. Charlie uscì per primo, diretto alla stazione di polizia che per lui era sua moglie e la sua famiglia. Dopo che se ne fu andato, sedetti al vecchio tavolo di quercia quadrato su una delle tre sedie spaiate e fissai la familiare cucina, con i suoi muri pennellati di scuro, le credenze giallo acceso e il linoleum bianco sul pavimento. Nulla era cambiato. Mia madre aveva colorato le credenze diciotto anni fa, cercando di portare un po’ di sole in casa. Sopra il piccolo caminetto dell’adiacente microscopico soggiorno, stava una fila di foto. La prima era una foto del matrimonio di Charlie e mia madre a Las Vegas, poi una di noi tre in ospedale dopo la mia nascita, scattata da una collaborativa infermiera, seguita da una processione di mie foto scolastiche fino a quest’anno. Erano imbarazzanti da vedere: brutti tagli di capelli, gli anni dell’apparecchio, l’acne che se n’era finalmente andata. Dovevo capire cosa potevo fare per convincere Charlie a metterle altrove, almeno mentre vivevo qui.
Era impossibile, stando in quella casa, non rendersi conto che Charlie non aveva mai dimenticato la mamma. Metteva a disagio.
Non volevo arrivare troppo presto a scuola, ma non potevo stare ancora a casa. Misi la giacca, spessa, di plastica non traspirante, come una tuta contro le minacce biologiche, e uscii sotto la pioggia.
Stava ancora piovigginando, non forte abbastanza da inzupparmi immediatamente mentre cercavo le chiavi di casa, sempre nascoste sotto la gronda vicino alla porta, e chiudevo. Il rumore dei miei nuovi stivali antipioggia suonava strano. Mi mancava il normale scricchiolio dei miei passi sulla ghiaia.
Dentro il pick-up, si stava bene ed all’asciutto. Qualcuno, Bonnie o Charlie, l’aveva ovviamente pulito ma la tappezzeria marrone chiaro dei sedili puzzava ancora leggermente di tabacco, benzina e menta piperita. Il motore si mise in moto velocemente, il che fu un sollievo, ma rumorosamente, ruggendo di vita e poi girando al minimo al massimo volume. Beh, un pick-up così vecchio doveva per forza avere un difetto. L’antica radio funzionava, un bonus che non mi ero aspettato.

Trovare la scuola non fu difficile, come molte altre cose era appena fuori dalla superstrada. A prima vista non sembra una scuola, solo il cartello, che la indicava come la scuola superiore di Forks, mi aiutò a dedurlo. Sembrava una collezione di case abbinate, costruite con mattoni rosso granata. C’erano così tanti alberi e cespugli che all’inizio non la vidi. Dove stava il senso di istituzione? Pensai. Dov’erano la rete metallica e i metal detector?
  

Traduzione a cura di Federica Bernardelli

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