Wela lettori!
Buona domenica, e oggi è davvero "buona". Oggi super delle super #anteprime.
Come dal titolo avete già immaginato... Twilight sta ritornando.
Nono, non parleremo di Edward Cullen e Bella Swan, ma di una nuovissima storia sempre targata Stephanie Meyer, sotto l'hashtag Vampiri!
Ebbene si, per gli amanti della storia più famosa, chiacchierata e discussa degli ultimi anni, si prospetta un ottimo anno nuovo. Infatti la nuovissima storia, sarà reperibile dai 14 gennaio negli scaffali come un racconto allegato alla sbrilluccicante e nuovissima versione del vecchio e conosciutissimo Twilight.
In esclusiva per AnniDiNuvole, traduciamo per voi le primissime pagine dell'opera.
Buona lettura!
Ma cosa succederebbe se i ruoli si ribaltassero? Se non fosse lui la creatura straordinaria, l’eroe meraviglioso dotato di capacità sovrumane ma… lei? Beaufort è un ragazzo alto e dinoccolato trasferitosi dall’Arizona. Quando incontra la bellissima Edythe, non sa che la fortissima attrazione che prova per lei potrebbe essere la sua rovina…
Spettacolare riscrittura di Twilight, Life and Death riapre le porte del piccolo mondo di Forks. Ricalcando il palcoscenico della storia d’amore più amata degli ultimi anni e ardenti di quella stessa passione che ha stregato milioni di fan in tutto il mondo, Beaufort e Edythe conquisteranno il lettore con il calore rassicurante di un’atmosfera conosciuta e la sorpresa di un finale completamente nuovo.
Il suo destino è
terribile, ma sublime.
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari
PROLOGO
Non ho mai pensato molto alla mia morte, nonostante negli ultimi mesi abbia
avuto molte ragioni per farlo; ma se anche l’avessi fatto, non l’avrei mai
immaginata così.
Guardai attraverso la lunga stanza, negli occhi scuri della cacciatrice, e
lei guardò me con allegria.
Almeno sarebbe stato un buon modo per morire, al posto di qualcun altro,
qualcuno che amavo. Nobile, persino. Doveva pur contare qualcosa.
Sapevo che se non fossi mai andato a Forks, non sarei stato in procinto di
morire; ma per quanto fossi terrorizzato, non riuscivo a pentirmi di quella
decisione. Quando la vita ti offre un sogno che va ben oltre ogni tua aspettativa,
non è giusto dispiacersi quando giunge alla fine.
La cacciatrice sorrise in modo amichevole mentre si apprestava ad
uccidermi.
A PRIMA VISTA
17 gennaio 2005
Mia madre mi accompagnò all’aeroporto con i finestrini abbassati. Sebbene
in ogni altro luogo fosse Gennaio, a Phoenix facevano ventiquattro gradi e il
cielo era di un azzurro brillante. Indossavo la mia maglietta preferita, quella
dei Monty Python con le rondini e la noce di cocco che mamma mi aveva regalato
due anni prima, a Natale. Mi era diventata un po’ piccola, ma non aveva
importanza. Presto non avrei avuto più bisogno di magliette.
Nella Penisola Olimpica, a Nord-ovest dello stato di Washington, esiste un
piccola città chiamata Forks, coperta da una quasi costante coltre di nubi. In
questa insignificante città piove più che in qualsiasi altro posto negli Stati
Uniti d’America. È da questa città e dalla sua deprimente tetraggine che mia
madre ed io eravamo scappati quando avevo solo pochi mesi. È in questa città
che ero stato costretto a passare un mese ogni estate, fino ai miei quattordici
anni. Quello è stato l’anno in cui ho finalmente iniziato a dare degli
ultimatum. Nelle ultime tre estati, invece, era stato mio padre, Charlie, a
venire in vacanza da me in California per due settimane.
Eppure, mi ritrovavo esiliato a Forks per il resto della mia educazione
superiore. Un anno e mezzo. Diciotto mesi. Pareva una pena detentiva. Diciotto
mesi. Sarebbe stata dura. Quando sbattei la porta della macchina dietro di me
fece un suono che ricordava lo sferragliare delle barre di ferro che si richiudono.
Ok, forse è un po’ troppo melodrammatico. Ho una immaginazione troppo fervida,
come mia madre amava ricordarmi e, ovviamente, questa era una mia scelta.
Esilio autoimposto.
Non rendeva la cosa più facile.
Amavo Phoenix. Amavo il sole e il caldo secco e la grande ed irregolare
città; e amavo vivere con mia madre, dove c’era bisogno di me.
“Non devi farlo per forza,” mi disse la mamma, per la centesima volta,
prima che raggiungessi il Metal Detector.
Mia madre dice che sembriamo così uguali che potrei usarla come specchio
per rasarmi. Non è totalmente vero, sebbene non assomigli per niente a mio
padre. Il mento della mamma è appuntito e le sue labbra sono piene, cosa che io
non ho. Ma abbiamo esattamente gli stessi occhi. Su di lei sembrano quelli di
un bambino, così grandi e di un azzurro pallido, la fanno sembrare mia sorella
piuttosto che mia mamma. Ci succede tutte le volte e, anche se lei finge che
non sia così, le fa piacere. Su di me l’azzurro pallido è meno giovanile e più…
insignificante.
Fissando quei grandi occhi preoccupati, così simili ai miei, provai panico.
Mi ero preso cura di mia madre per tutta la mia vita. Voglio dire, deve esserci
stato un tempo, probabilmente quando portavo ancora i pannolini, in cui non ero
stato incaricato di pagare le bollette o controllare le scartoffie o cucinare o,
in generale, essere intestatario di tutto, ma non riuscivo a ricordarlo.
Lasciare mia madre a cavarsela da sola era davvero la cosa giusta da fare?
Così era sembrato durante i mesi in cui avevo combattuto per prendere questa
decisione, ma in quel momento sembrava totalmente sbagliato.
Ovviamente adesso aveva Phil, quindi probabilmente le bollette sarebbero
state pagate in tempo, ci sarebbe stato cibo nel frigorifero, benzina nella
macchina e qualcuno da chiamare in caso si fosse persa. Non aveva più così
tanto bisogno di me.
“Voglio andare,” mentii. Non ero
mai stato un abile bugiardo, ma questa bugia l’avevo ripetuta così tante volte
ultimamente che sembrava quasi convincente.
“Di’ a Charlie che lo saluto.”
“Lo farò.”
“Ci vediamo presto,” mi promise. “Puoi tornare a casa ogni volta che vuoi,
tornerò non appena avrai bisogno.”
Ma sapevo quanto le sarebbe costato farlo.
“Non preoccuparti per me,” insistetti. “Sarà fantastico. Ti voglio bene,
mamma.”
Mi abbracciò forte per un minuto e poi attraversai i metal detector e lei
sparì.
Il volo da Phoenix a Seattle sarebbe durato tre ore, poi un’altra ora in un
piccolo aereo fino a Port Angeles, e infine un’ora di macchina in direzione di
Forks. Volare non mi aveva mai infastidito, era dell’ora in macchina con
Charlie, invece, che mi preoccupavo.
Charlie si era comportato in maniera piuttosto cortese durante l’intera
faccenda. Sembrava genuinamente contento che andassi a vivere con lui, più o
meno permanentemente, per la prima volta. Mi aveva già registrato alla scuola
superiore e mi avrebbe aiutato a prendermi una macchina.
Sarebbe comunque stato strano. Nessuno dei due poteva essere definito
estroverso, probabilmente una caratteristica essenziale per vivere con mia
madre. Ma a parte questo, cosa c’era da dire? Non era che avessi fatto segreto
di quello che pensavo di Forks.
Quando atterrai a Port Angeles, pioveva. Non era un cattivo auspicio, era
solo inevitabile. Avevo già detto addio al sole.
Charlie mi aspettava con la volante. Mi ero aspettato anche questo. Charlie
era, per le buone persone di Forks, il capo della Polizia Swan. La mia
motivazione principale per voler acquistare una macchina, nonostante la mia
serissima mancanza di fondi, era che odiavo andare in giro per la città in una
macchina con le luci rosse e blu sulla capotta. Niente rallenta il traffico
come uno sbirro.
Incespicai giù dall’aereo verso l’imbarazzante abbraccio a metà di Charlie.
“È bello vederti, Beau,” disse, sorridendo mentre, automaticamente, mi
stabilizzava. Ci demmo una pacca sulla spalla a vicenda, imbarazzati, e poi
facemmo un passo indietro.
“Non sei cambiato molto. Come sta Renée?”
“La mamma sta alla grande. Anche per me è bello vederti, papà.” Si
presumeva che non lo chiamassi Charlie in sua presenza.
“Sei davvero convinto di lasciarla?”
Sapevamo entrambi che questa domanda non riguardava la mia personale
felicità. Riguardava il se mi stessi sottraendo alla mia responsabilità di
prendermi cura di lei. Era la ragione per cui Charlie non le aveva mai fatto
battaglia per la mia custodia: sapeva che lei aveva bisogno di me.
“Sì, non sarei qui se non ne fossi sicuro.”
“Mi sembra giusto.”
Avevo con me solamente due grandi borsoni. La maggior parte dei vestiti che
avevo in Arizona erano troppo permeabili per il clima di Washington. Io e la
mamma avevamo dato fondo alle nostre risorse per integrare il mio guardaroba
invernale, ma non consisteva comunque di molto. Potevo portarli entrambi, ma
Charlie insistette per prenderne uno. Persi un po’ l’equilibrio, non che
normalmente fossi molto bilanciato, specialmente dopo lo scatto di crescita. Il
mio piede inciampò contro il bordo della porta d’uscita e la borsa oscillò e
colpì il tipo che cercava di entrare.
“Oh, mi scusi.”
Il ragazzo non era molto più grande di me, ed era molto più basso ma si
fece avanti verso il mio petto, con il mento rialzato. Potevo vedere che aveva
tatuaggi su entrambi i lati del collo. Una piccola donna con i capelli tinti di
un nero inteso mi guardò minacciosamente dal suo fianco.
“Mi scusi?” Ripeté, come se le
mie scuse fossero state in qualche modo offensive.
“Ehm, sì?”
Poi la donna notò Charlie, che era in uniforme. Charlie non ebbe bisogno di
dire nulla, si limitò a guardare il ragazzo, che retrocesse di mezzo passo e
immediatamente sembrò molto più giovane, e poi la ragazza, le cui appiccicose
labbra rosse misero il broncio. Senza un’altra parola, mi bypassarono e si
diressero verso il piccolo terminal.
Sia io che Charlie scuotemmo le spalle allo stesso tempo. Era divertente
come avessimo modi di fare simili avendo passato così poco tempo insieme. Forse
era genetica.
“Ti ho trovato una buona macchina, davvero economica,” annunciò Charlie
quando entrammo nella volante e ci avviammo.
“Che tipo di macchina?” Domandai, sospettoso del modo in cui aveva detto “Ti ho trovato una buona macchina” invece
che dire solo “ho trovato una buona macchina.”
“Beh, è un pick-up in realtà, uno Chevrolet.”
“Dove l’hai trovato?”
“Ti ricordi di Bonnie Black, che sta giù a La Push?” La Push è la piccola
riserva indiana vicino alla costa.
“No.”
“Lei e suo marito venivano a pesca con noi in estate,” mi suggerì.
Questo spiegava perché non me la ricordavo. Sono molto bravo a bloccare i
ricordi dolorosi fuori dalla mia memoria.
“È in sedia a rotelle ora,” Charlie continuò quando non risposi, “quindi
non può più guidare e si è offerta di vendermi il suo pick-up per poco.”
“Di che anno è?” Potevo vedere dal suo cambio di espressione che questa era
la domanda che sperava non gli facessi.
“Beh, Bonnie gli ha fatto fare molti lavori al motore… ha solo qualche
anno, davvero.”
Pensava che mi sarei arreso così facilmente?
“Quando lo ha comprato?”
“Lo ha comprato nel 1984, credo.”
“Lo ha comprato nuovo?”
“Beh, no. Penso fosse nuovo nei primi anni sessanta, o al massimo alla fine
dei cinquanta,” ammise impacciatamente.
“Cha… papà, non so davvero niente di macchine. Non sarei in grado di
aggiustare niente se si rompesse, e non potrei permettermi un meccanico…”
“Beau, sul serio, quel coso va alla grande. Non ne fanno più così adesso.”
Il coso, pensai tra me… aveva
delle possibilità. Come soprannome, almeno.
“Quanto economico è economico?” Dopotutto,
era quello che importava per chiudere l’affare.
“Beh, figliolo, te lo avrei già comprato. Come regalo di benvenuto.”
Charlie guardò lateralmente, verso di me, con espressione speranzosa.
Wow. Gratis.
“Non ce n’era bisogno, papà. Me la sarei comprato da solo.”
“Non mi dispiace. Voglio che tu sia felice qui.” Guardò la strada davanti a
sé mentre lo disse. Charlie non era mai stato a suo agio ad esprimere le sue
emozioni ad alta voce. Un’altra cosa che avevamo in comune. Quindi guardai dritto
davanti a me quando risposi.
“È fantastico, papà. Grazie, lo apprezzo davvero.” Non c’era bisogno di
aggiungere che stava parlando di qualcosa di impossibile. Non avrebbe giovato a
nessuno che lui soffrisse insieme a me. E a pick-up donato non si guarda in
bocca, o meglio nel motore.
“Beh, ecco, di niente,” mormorò, imbarazzato per i miei ringraziamenti.
Scambiammo qualche altro commento sul tempo, che era bagnato, e questa fu
più o meno tutta la conversazione. Fissammo fuori dai finestrini.
Era bellissimo, probabilmente, o qualcosa del genere. Tutto era verde: gli
alberi erano coperti di muschio, sia sui tronchi che sui rami, e il terreno era
coperto di felci. Persino l’aria, filtrata dalla foglie, diventava verde. Era
troppo verde, un pianeta alieno.
Alla fine arrivammo a casa di Charlie. Viveva ancora nella piccola casa con
due stanze da letto che aveva comprato con mia madre durante i primi giorni del
loro matrimonio. Quelli erano gli unici giorni che il loro matrimonio aveva
avuto, i primi. Lì, parcheggiato nella strada di fronte alla casa che non era
mai cambiata, stava il mio nuovo, nuovo per me, pick-up. Era di un color rosso
smunto, con paraurti grossi e rotondi ed una cabina tondeggiante.
E me ne innamorai. Non era proprio una macchina adatta a un ragazzo, quindi
fui abbastanza sorpreso dalla mia reazione. Insomma, non sapevo nemmeno se
avrebbe funzionato, ma mi ci vedevo. Inoltre, era uno di quei solidi mostri di
ferro che non si danneggiano mai; il tipo che puoi vedere sulla scena di un incidente
con la vernice intoccata, circondato dai pezzi della macchina sconosciuta che
ha appena distrutto.
“Wow, papà, è fantastico! Grazie!” L’entusiasmo era vero in quel caso. Non
solo il pick-up era stranamente figo, ma non avrei dovuto camminare per tre
chilometri sotto la pioggia per andare a scuola la mattina. O accettare un
passaggio sulla volante che, ovviamente, era lo scenario peggiore.
“Sono contento che ti piaccia,” disse Charlie burbero, di nuovo in
imbarazzo.
Mi ci volle un solo viaggio per portare tutte le mie cose al piano
superiore. Avevo la stanza ad ovest, quella che si affacciava sul giardino di
fronte. La stanza era familiare, era mia da quando ero nato. Il pavimento di
legno, le pareti azzurre, il soffitto a punta, le tende a quadretti bianche e
blu sbiadite alle finestre; facevano tutti parte della mia infanzia. Gli unici
cambiamenti che Charlie avesse mai fatto mentre io crescevo erano consistiti
nel sostituire la culla con un letto e aggiungere una scrivania. Sulla
scrivania ora c’era un computer di seconda mano, con il filo del telefono per
il modem fissato al pavimento fino alla presa del telefono più vicina. Era una
delle richieste di mia madre, così che potessimo stare in contatto. La sedia a
dondolo dei miei giorni di bambino era ancora nell’angolo.
C’era solo un piccolo bagno in cima alle scale, avrei dovuto dividerlo con
Charlie, ma ne avevo già condiviso uno con mia mamma ed era stato molto peggio.
Lei aveva molte più cose e resisteva accanitamente a tutti i miei tentativi di organizzarle.
Una delle caratteristiche migliori di Charlie è che non gironzola. Mi
lasciò da solo a disfare i bagagli e a sistemarmi, cosa che sarebbe stata
totalmente impossibile per mia madre. Era bello stare soli, non dover sorridere
e sembrare a proprio agio. Era un sollievo fissare la pioggia battente fuori
dalla finestra e abbandonarsi a pensieri negativi.
La scuola superiore di Forks aveva solo trecentocinquantasette, ora
trecentocinquantotto, studenti. Solo nella mia vecchia classe, a casa, c’erano
più di settecento persone. Tutti i ragazzi qui erano cresciuti insieme, i loro
nonni erano stati infanti insieme. Sarei stato il nuovo ragazzo dalla grande
città, qualcuno da fissare e di cui bisbigliare.
Forse se fossi stato uno dei ragazzi fighi avrei potuto farla funzionare.
Arrivare tutto popolare, tipo il re del ballo di benvenuto, ma non c’era modo
di nascondere il fatto che non fossi quel
tipo di ragazzo. Non ero la star del football, non il presidente della
classe, non il ragazzaccio con la motocicletta. Ero il bambino che sembrava
avrebbe potuto essere bravo a basket, finché non avevo iniziato a camminare. Il
bambino che veniva rinchiuso negli armadietti, finché al secondo anno delle
superiori non ero cresciuto di venti centimetri. Il bambino che era troppo
tranquillo e troppo pallido, che non sapeva nulla di giochi al computer o
macchine o statistiche del baseball o di qualsiasi altra cosa di cui avrei
dovuto essere appassionato.
A differenza degli altri ragazzi, non avevo molto tempo libero per gli
hobby. Avevo un libro dei conti da far quadrare, uno scarico intasato da
sturare e la spesa settimanale da fare.
O così era stato.
Quindi non mi relazionavo bene con le persone della mia età, forse la
verità era che non mi relazionavo bene con le persone, punto. Persino mia
madre, la persona alla quale ero più vicino di qualunque altra sul pianeta, non
mi aveva mai capito davvero. A volte mi domandavo se i miei occhi vedessero le
stesse cose che gli altri vedevano con i loro. Forse quello che io vedevo come
verde per tutti gli altri era rosso. Forse sentivo odore di aceto quando gli
altri sentivano quello del cocco. Forse c’era un problema col mio cervello. Ma
la causa non aveva importanza, quello che importava era l’effetto. E l’indomani
sarebbe stato solo l’inizio.
Non dormii bene quella notte, nemmeno dopo che finalmente riuscii a far
tacere la mia testa. Il costante rumore della pioggia e del vento sul tetto non
volevano sparire in sottofondo. Mi misi il vecchio piumone sopra la testa e più
tardi aggiunsi anche il cuscino, ma non riuscii ad addormentarmi fino a dopo
mezzanotte, quando la pioggia finalmente diventò una quieta pioggerellina.
Una nebbia spessa fu tutto quello che vidi fuori dalla mia finestra la
mattina seguente e percepii che la mia claustrofobia stava salendo
furtivamente. Non si riusciva mai a vedere il cielo a Forks, era un po’ come
quella gabbia che mi ero immaginato.
La colazione con Charlie fu silenziosa. Mi augurò buona fortuna per la
scuola. Lo ringrazia sapendo che la sua speranza era uno spreco di tempo, la
buona fortuna tendeva ad evitarmi. Charlie uscì per primo, diretto alla
stazione di polizia che per lui era sua moglie e la sua famiglia. Dopo che se
ne fu andato, sedetti al vecchio tavolo di quercia quadrato su una delle tre
sedie spaiate e fissai la familiare cucina, con i suoi muri pennellati di
scuro, le credenze giallo acceso e il linoleum bianco sul pavimento. Nulla era
cambiato. Mia madre aveva colorato le credenze diciotto anni fa, cercando di
portare un po’ di sole in casa. Sopra il piccolo caminetto dell’adiacente microscopico
soggiorno, stava una fila di foto. La prima era una foto del matrimonio di
Charlie e mia madre a Las Vegas, poi una di noi tre in ospedale dopo la mia
nascita, scattata da una collaborativa infermiera, seguita da una processione
di mie foto scolastiche fino a quest’anno. Erano imbarazzanti da vedere: brutti
tagli di capelli, gli anni dell’apparecchio, l’acne che se n’era finalmente
andata. Dovevo capire cosa potevo fare per convincere Charlie a metterle
altrove, almeno mentre vivevo qui.
Era impossibile, stando in quella casa, non rendersi conto che Charlie non
aveva mai dimenticato la mamma. Metteva a disagio.
Non volevo arrivare troppo presto a scuola, ma non potevo stare ancora a
casa. Misi la giacca, spessa, di plastica non traspirante, come una tuta contro
le minacce biologiche, e uscii sotto la pioggia.
Stava ancora piovigginando, non forte abbastanza da inzupparmi
immediatamente mentre cercavo le chiavi di casa, sempre nascoste sotto la gronda
vicino alla porta, e chiudevo. Il rumore dei miei nuovi stivali antipioggia
suonava strano. Mi mancava il normale scricchiolio dei miei passi sulla ghiaia.
Dentro il pick-up, si stava bene ed all’asciutto. Qualcuno, Bonnie o
Charlie, l’aveva ovviamente pulito ma la tappezzeria marrone chiaro dei sedili
puzzava ancora leggermente di tabacco, benzina e menta piperita. Il motore si
mise in moto velocemente, il che fu un sollievo, ma rumorosamente, ruggendo di
vita e poi girando al minimo al massimo volume. Beh, un pick-up così vecchio
doveva per forza avere un difetto. L’antica radio funzionava, un bonus che non
mi ero aspettato.
Trovare la scuola non fu difficile, come molte altre cose era appena fuori
dalla superstrada. A prima vista non sembra una scuola, solo il cartello, che
la indicava come la scuola superiore di Forks, mi aiutò a dedurlo. Sembrava una
collezione di case abbinate, costruite con mattoni rosso granata. C’erano così
tanti alberi e cespugli che all’inizio non la vidi. Dove stava il senso di istituzione? Pensai. Dov’erano la rete
metallica e i metal detector?
Traduzione a cura di Federica Bernardelli
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