domenica 16 agosto 2015

Anteprima: Torna con me


Ciao amiche!
Oggi vi proponiamo parte del primo capitolo di Torna con me di J. Lynn, che uscirà in libreria il 10 settembre. A differenza di altri appuntamenti, oggi vi proponiamo la traduzione ufficiale, che potrete trovare nell’ultimo libro pubblicato dell’autrice, Rimani con me (Recensione QUI)


TramaDa sei anni, dal giorno in cui ha perduto ciò che aveva di più caro al mondo, Roxy Ark ha eretto una barriera tra sé e il resto del mondo, concentrando tutte le sue energie sul lavoro e sul suo sogno di diventare designer. Tra lo studio e i turni al pub di Jax James, proprio non ha tempo per gli uomini, soprattutto non per il detective Reece Anders, l'unico che avesse fatto breccia nel suo cuore, finendo col spezzarlo. Roxy non gli rivolge più la parola, anche se non è mai riuscita a dimenticarlo…
Reece Anders non ha più nulla da dare. Tormentato dai fantasmi di un passato che si rifiuta di lasciarlo libero, ha paura di trascinare nel baratro chiunque gli si avvicini troppo. Perciò ha allontanato la famiglia, gli amici, persino Roxy, la sola donna che lo rendesse felice. Tuttavia, quando Roxy si presenta in commissariato per aver ricevuto diverse minacce, Reece insiste che gli venga affidato il caso, pronto a tutto pur di proteggerla. Ma l'amore che prova per lei gli darà la forza di superare ogni ostacolo o sarà il tallone d'Achille che lo distruggerà?



Sedevo da dieci minuti su una comoda poltroncina nella soleggiata sala d’aspetto, quando vidi entrare nel mio campo visivo un paio di scarpe da ginnastica bianche e sporche. Ero intenta ad ammirare il parquet, e stavo riflettendo che le cliniche private dovevano guadagnare un bel po’ di soldi per potersi permettere un legno scuro dall’aria così costosa.
D’altronde, i genitori di Charlie Clark non avevano badato a spese per la prolungata degenza del loro unico figlio: avevano scelto la clinica più rinomata di Philadelphia. La retta annuale doveva essere astronomica: sicuramente più di quanto guadagnavo io dietro il bancone del Mona’s e arrotondando col web design.
Un simile esborso serviva – secondo loro, o almeno così immaginavo – a compensare il fatto che andavano a trovare Charlie una volta all’anno, e restavano solo per una ventina di minuti. Decisamente, al mondo c’erano persone migliori di me e più inclini al perdono: perché in quel momento, mentre alzavo lo sguardo sul sorriso falso che l’infermiera portava stampato in faccia, mi assalì il consueto fremito d’irritazione che provavo sempre al pensiero dei genitori di Charlie. Battei le palpebre, le battei
di nuovo, non riconobbi i capelli rossi e gli occhi castani, il viso più giovane.
Era un’infermiera nuova. Mi fissò i capelli per un momento di troppo, ma il suo sorriso non vacillò. I miei capelli non erano poi tanto strani: qualche giorno prima avevo coperto le ciocche rosse con larghe striature viola, ma nella crocchia in cui li avevo legati non facevano un gran bell’effetto. La sera prima avevo fatto chiusura, perciò ero tornata a casa alle tre passate: ed era stata un’impresa alzarmi, lavarmi i denti e la faccia e
prendere la macchina per venire in centro.
«Roxanne Ark?» chiese l’infermiera fermandosi davanti a me e giungendo le mani.
Restai di stucco sentendomi chiamare col nome per esteso. I miei genitori erano tipi eccentrici, e negli anni ’80 dovevano essersi strafatti di coca o qualcosa del genere: portavo quel nome in onore della canzone Roxanne dei Police, e i miei fratelli si chiamavano Gordon e Thomas, i veri nomi di Sting.
«Sì», risposi, raccogliendo la borsa che avevo portato con me.
L’infermiera continuò a sorridere e m’indicò una porta chiusa. «Oggi l’infermiera Venter non c’è, ma mi ha spiegato che vieni ogni venerdì a mezzogiorno, quindi abbiamo preparato Charlie.»
«Oh no, l’infermiera non sta bene?» Mi preoccupai. In quei sei anni di visite, l’infermiera Venter era diventata un’amica; sapevo che il suo figlio minore si sarebbe sposato a ottobre, finalmente, e la figlia
di mezzo le aveva dato il primo nipotino un mese addietro, a luglio.
«Si è buscata uno di quei raffreddori da fine estate», spiegò l’infermiera. «Oggi voleva venire, ma le abbiamo consigliato di starsene a letto per tutto il weekend.» L’infermiera nuova si fece da parte mentre io rimanevo in piedi. «Mi ha detto che ti piace leggere a Charlie, vero?»
Annuii, strinsi più forte la borsa. L’infermiera si fermò alla porta, si sfilò il cartellino col nome che portava fissato al petto con una
molletta e lo passò davanti a un sensore sulla parete. Sentii uno scatto e poi l’infermiera spinse la porta.
«Negli ultimi due giorni non è stato troppo male. Certo, non sta bene quanto vorremmo», continuò,
mentre entravamo nel corridoio ampio e ben illuminato. Le pareti erano bianche e spoglie: nessuna personalità, niente di niente. «Ma stamattina si è svegliato presto.»
Le mie infradito di un verde acceso sbattevano sulle mattonelle del pavimento, ma le scarpe da ginnastica dell’infermiera non facevano nessun rumore. Passammo nel corridoio che conduceva, lo sapevo, alla sala comune. A Charlie non era mai piaciuto quel posto, ed era strano, perché prima... prima dell’incidente era una persona molto socievole.
Era un mucchio di cose, prima.
La sua stanza era in fondo a un altro corridoio, in un reparto progettato per offrire una bella vista sulla campagna e una piscina terapeutica che Charlie non aveva mai usato. Non era un buon nuotatore neanche prima, ma ogni volta che vedevo quella maledetta piscina là fuori mi veniva voglia di prendere a pugni qualcosa o qualcuno. Non so perché, forse perché era una cosa che chiunque altro dava per scontata – la capacità di nuotare da soli – o forse perché l’acqua mi dava un’idea di libertà, mentre il
futuro di Charlie era gravemente vincolato.
L’infermiera si fermò fuori dalla porta chiusa della sua stanza. «Quand’è il momento di andartene, sai cosa devi fare.»
Lo sapevo. Prima di andar via dovevo passare al banco delle infermiere e firmare per l’uscita. Evidentemente volevano assicurarsi che non cercassi di rapire Charlie. L’infermiera si accomiatò con un allegro cenno del capo, girò sui tacchi e si riavviò in corridoio a lunghi passi.
Restai a fissare la porta per un momento, inspirai a fondo ed espirai lentamente. Dovevo fare così ogni volta che andavo da Charlie, prima di entrare nella stanza: era l’unico modo per sbarazzarmi del groviglio di emozioni – la delusione, la rabbia, la tristezza – che non volevo fargli vedere. A volte non ci riuscivo, ma ci provavo sempre. Quando valutai che sarei riuscita a sorridere senza sembrare una squilibrata, aprii la porta; e, come ogni venerdì degli ultimi sei anni, vedere Charlie fu un pugno allo stomaco.
Era seduto davanti alla grande portafinestra: sulla sua poltrona. Era una di quelle poltroncine rotonde, con l’imbottitura di un azzurro acceso. La possedeva da quando aveva sedici anni, gliel’avevano regalata per il compleanno pochi mesi prima che la sua vita cambiasse di colpo.
Non alzò lo sguardo quando entrai nella stanza e richiusi la porta. Non lo faceva mai.
La stanza non era male: piuttosto spaziosa, con un letto non troppo stretto e ben rifatto dalle infermiere, una scrivania che Charlie non usava mai e un televisore che mai, in sei anni, avevo visto acceso.
Lo osservai, seduto sulla poltroncina a guardare fuori dalla finestra: era più che snello, anzi era decisamente magro. L’infermiera Venter mi aveva detto che faticavano a fargli mangiare tre pasti al giorno, e avevano tentato invano di suddividerli in cinque più piccoli, ma neanche quello aveva funzionato. A un certo punto, l’anno prima, la situazione si era fatta così grave che avevano dovuto alimentarlo con una sonda gastrica. Sentivo ancora in bocca il sapore di quella paura: in quel periodo avevo temuto di perderlo. I capelli biondi gli erano stati lavati quella mattina, ma non glieli avevano pettinati ed erano molto più corti di come li portava prima: aveva sempre adorato quell’acconciatura scompigliata ad arte, che gli stava benissimo. Quel giorno indossava una maglietta bianca e pantaloni della tuta grigi, e neanche di
quelli alla moda: no, erano quelli con l’elastico alle caviglie. Dio mio, avrebbe scatenato l’inferno se avesse saputo di indossarli... E avrebbe avuto ragione, perché Charlie... be’, aveva stile, buon gusto, classe...
Mi schiarii la voce e mi avvicinai alla seconda poltroncina, con l’imbottitura dello stesso colore, che avevo comprato tre anni prima. «Ciao, Charlie.»
Non mi guardò.
Non mi sentii delusa. Cioè, pensai come sempre che fosse un’ingiustizia, ma non mi assalì una nuova ondata di sconforto, perché ormai c’ero abituata.
Mi sedetti e posai la borsa a terra. Da vicino dimostrava più di ventidue anni, diversi anni in più. Il volto scavato, il pallore, le occhiaie sotto le iridi verdi che un tempo sprizzavano energia. Feci un altro lungo respiro. «Fa caldissimo oggi, perciò non prendermi in giro per i calzoncini.»
All’epoca mi avrebbe imposto di cambiarmi prima che osassi farmi vedere in pubblico. «Il meteo prevede temperature record nel fine settimana.»
Charlie batté lentamente le palpebre.
«E anche qualche brutto temporale.» Giunsi le mani, come pregando che mi guardasse. Durante certe visite non lo faceva mai. Non era successo nelle ultime tre, e questo mi terrorizzava: perché l’ultima volta che aveva trascorso tanto tempo senza guardarmi, poi aveva avuto un attacco epilettico fortissimo.
Probabilmente le due cose non erano collegate, ma lo stomaco mi si annodò lo stesso. L’infermiera Venter mi aveva spiegato che gli attacchi epilettici sono piuttosto frequenti nei pazienti reduci da quel tipo di trauma cranico. «Ricordi quanto mi piacciono i temporali, vero?»
Nessuna risposta.
«Be’, quando non generano trombe d’aria», precisai. «Ma siamo a Philadelphia, perciò dubito che verrà un tornado.»
Un altro lento battito di palpebre.
«Ah! Domani sera chiudiamo il Mona’s al pubblico», blaterai, non ricordando se gli avessi già parlato di quel progetto, ma tanto non faceva differenza. «È una festa privata.» Feci una pausa abbastanza lunga da poter fare un respiro.
Charlie guardava ancora fuori dalla finestra.
«Penso che ti piacerebbe, il Mona’s. È un posto un po’ volgare, ma in senso buono, diciamo così. Ma te l’avevo già detto. Non lo so, ma vorrei...» Lo vidi alzare le spalle e fare un lungo sospiro, e strinsi le labbra. «Vorrei tante cose», finii in un sussurro.
Aveva iniziato a dondolarsi, come sovrappensiero. Un ritmo lento, che mi faceva pensare all’oceano, a una barca sospinta lentamente avanti e indietro.
Per un momento combattei contro l’impulso di gridare, per sfogare la frustrazione che si andava  accumulando rapidamente dentro di me. Charlie era un gran chiacchierone: alle elementari, le maestre l’avevano soprannominato La Boccaccia, e quando rideva... santo cielo, aveva una risata fantastica, contagiosa e sincera.
Ma da anni non rideva più.
Chiusi gli occhi per ricacciare indietro le lacrime. Avrei voluto rotolarmi a terra e singhiozzare. Era tutto così ingiusto. Charlie avrebbe dovuto camminare con le sue gambe, ormai avrebbe dovuto essere già laureato ed essersi trovato un bel ragazzo con cui uscire in doppia coppia insieme con me e il mio fidanzato di turno. Avrebbe dovuto pubblicare un romanzo, come si era ripromesso. Così oggi saremmo ancora quelli che eravamo prima: amici del cuore, inseparabili. Sarebbe venuto a trovarmi al bar, sarebbe intervenuto nel momento del bisogno, dicendomi di piantarla coi piagnistei.
Avrebbe dovuto continuare a vivere. Perché quella, qualsiasi cosa fosse, non era vita.
E invece, accidenti, era bastata una maledetta sera, qualche parola stupida e un maledetto sasso, per distruggere tutto.
Aprii gli occhi, sperando che lui mi guardasse, ma non fu così. Trattenendo a malapena le lacrime, mi chinai a tirar fuori dalla borsa un disegno all’acquerello piegato in due. «Questo l’ho fatto per te.»
Proseguii con la voce incrinata. «Ti ricordi quando avevamo quindici anni e i miei genitori ci hanno portati a Gettysburg? Ti è piaciuto tanto il Devil’s Den, perciò l’ho disegnato.»
Aprii il foglio e glielo mostrai, anche se lui non lo guardava. Avevo impiegato diverse ore nel corso della settimana per dipingere le rocce brune e i prati verdi, per azzeccare il colore dei massi e della
ghiaia. Le ombreggiature erano state la parte più difficile, essendo all’acquerello, ma il risultato mi sembrava niente male.
Mi alzai e raggiunsi la parete di fronte al letto. Tirai fuori una puntina dal cassetto della scrivania e appesi il dipinto accanto agli altri. Ce n’era uno per ogni settimana in cui ero venuta a trovarlo.
Trecentododici dipinti.
Feci correre lo sguardo sulle pareti. I miei preferiti erano i ritratti di Charlie: io e lui insieme quand’eravamo piccoli. Stavo per finire lo spazio: presto avrei dovuto iniziare ad attaccarli sul soffitto.
Tutti quei dipinti raffiguravano... il passato. Nulla sul presente o il futuro. Solo un muro pieno di ricordi.
Tornai alla poltroncina e tirai fuori il libro che avevo iniziato a leggergli, New Moon. Eravamo riusciti a vedere insieme il primo film, e quasi anche il secondo. Mentre aprivo il libro alla pagina cui ero arrivata l’ultima volta, pensai che Charlie avrebbe parteggiato per il Team Jacob. Non era il tipo da vampiri emo, lui. Era la quarta volta che gli leggevo quel libro, ma sembrava che gli piacesse. O almeno così mi dicevo.
Neppure una volta si girò a guardarmi, nell’ora che trascorsi con lui. E, mentre radunavo le mie cose per andarmene, sentivo il cuore pesante come quel sasso che aveva cambiato tutto. Mi chinai su di lui.
«Guardami, Charlie.» Aspettai un momento, mi si serrò la gola. «Per favore.»
Charlie... batté le palpebre e continuò a dondolarsi lentamente. Avanti e indietro. Nient’altro.
Aspettai per cinque minuti interi una reazione, una reazione qualsiasi, ma non arrivò.
Con le lacrime agli occhi, gli baciai la guancia fresca e mi tirai in piedi. «Ci vediamo venerdì prossimo, va bene?»
Finsi che rispondesse di sì. Solo così potevo uscire da quella stanza e chiudermi la porta alle spalle.
Firmai il registro, e mentre mi ributtavo nell’afa tirai fuori gli occhiali da sole e li inforcai. La calura di
quella giornata fece meraviglie per la mia pelle fredda, ma non riuscì a sciogliere il gelo che avevo dentro. Era sempre così quando tornavo da una visita a Charlie, e quel gelo sarebbe passato solo all’inizio del turno al Mona’s.
Mentre attraversavo il parcheggio diretta alla mia macchina, imprecai.
Guardando il calore alzarsi dal cemento, immediatamente mi chiesi quali colori avrei dovuto mescolare per riprodurre quell’effetto su una tela. Poi vidi la mia fidata Volkswagen Jetta e non pensai più agli acquerelli. Mi venne un groppo in gola e rischiai d’inciampare. Accanto alla mia macchina c’era un bel pick-up quasi nuovo.
Era nero. Lo conoscevo.
Una volta l’avevo guidato.
Oh, cavoli.
I miei piedi rifiutavano di muoversi. Ero impietrita.
Il mio peggior nemico era lì, e stranamente era la stessa persona che aveva un ruolo da protagonista
in tutte le mie fantasie, anche quelle più volgari... anzi, soprattutto in quelle.
Reece Anders era lì, e io non sapevo se tirargli un calcio nelle palle o baciarlo.

Che ne pensate?
Vi incuriosisce? Per saperne di più, non vi resta che aspettare la nostra prossima traduzione, solo su AnniDiNuvole :)
Un abbraccio e buona lettura!

Robi

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