Ciao
amiche!
Oggi vi proponiamo parte del primo capitolo di Torna con me di J. Lynn, che uscirà in
libreria il 10 settembre. A differenza di altri appuntamenti, oggi vi
proponiamo la traduzione ufficiale, che potrete trovare nell’ultimo libro
pubblicato dell’autrice, Rimani con me (Recensione QUI)
Trama: Da sei anni, dal giorno in cui ha perduto ciò che aveva di più caro al mondo, Roxy Ark ha eretto una barriera tra sé e il resto del mondo, concentrando tutte le sue energie sul lavoro e sul suo sogno di diventare designer. Tra lo studio e i turni al pub di Jax James, proprio non ha tempo per gli uomini, soprattutto non per il detective Reece Anders, l'unico che avesse fatto breccia nel suo cuore, finendo col spezzarlo. Roxy non gli rivolge più la parola, anche se non è mai riuscita a dimenticarlo…
Reece Anders non ha più nulla da dare. Tormentato dai fantasmi di un passato che si rifiuta di lasciarlo libero, ha paura di trascinare nel baratro chiunque gli si avvicini troppo. Perciò ha allontanato la famiglia, gli amici, persino Roxy, la sola donna che lo rendesse felice. Tuttavia, quando Roxy si presenta in commissariato per aver ricevuto diverse minacce, Reece insiste che gli venga affidato il caso, pronto a tutto pur di proteggerla. Ma l'amore che prova per lei gli darà la forza di superare ogni ostacolo o sarà il tallone d'Achille che lo distruggerà?
Sedevo
da dieci minuti su una comoda poltroncina nella soleggiata sala d’aspetto,
quando vidi entrare nel mio campo visivo un paio di scarpe da ginnastica
bianche e sporche. Ero intenta ad ammirare il parquet, e stavo riflettendo che
le cliniche private dovevano guadagnare un bel po’ di soldi per potersi
permettere un legno scuro dall’aria così costosa.
D’altronde,
i genitori di Charlie Clark non avevano badato a spese per la prolungata
degenza del loro unico figlio: avevano scelto la clinica più rinomata di
Philadelphia. La retta annuale doveva essere astronomica: sicuramente più di
quanto guadagnavo io dietro il bancone del Mona’s e arrotondando col web
design.
Un
simile esborso serviva – secondo loro, o almeno così immaginavo – a compensare
il fatto che andavano a trovare Charlie una volta all’anno, e restavano solo
per una ventina di minuti. Decisamente, al mondo c’erano persone migliori di me
e più inclini al perdono: perché in quel momento, mentre alzavo lo sguardo sul
sorriso falso che l’infermiera portava stampato in faccia, mi assalì il
consueto fremito d’irritazione che provavo sempre al pensiero dei genitori di
Charlie. Battei le palpebre, le battei
di
nuovo, non riconobbi i capelli rossi e gli occhi castani, il viso più giovane.
Era
un’infermiera nuova. Mi fissò i capelli per un momento di troppo, ma il suo
sorriso non vacillò. I miei capelli non erano poi tanto strani: qualche giorno
prima avevo coperto le ciocche rosse con larghe striature viola, ma nella
crocchia in cui li avevo legati non facevano un gran bell’effetto. La sera
prima avevo fatto chiusura, perciò ero tornata a casa alle tre passate: ed era
stata un’impresa alzarmi, lavarmi i denti e la faccia e
prendere
la macchina per venire in centro.
«Roxanne
Ark?» chiese l’infermiera fermandosi davanti a me e giungendo le mani.
Restai
di stucco sentendomi chiamare col nome per esteso. I miei genitori erano tipi
eccentrici, e negli anni ’80 dovevano essersi strafatti di coca o qualcosa del
genere: portavo quel nome in onore della canzone Roxanne dei Police, e i
miei fratelli si chiamavano Gordon e Thomas, i veri nomi di Sting.
«Sì»,
risposi, raccogliendo la borsa che avevo portato con me.
L’infermiera
continuò a sorridere e m’indicò una porta chiusa. «Oggi l’infermiera Venter non
c’è, ma mi ha spiegato che vieni ogni venerdì a mezzogiorno, quindi abbiamo
preparato Charlie.»
«Oh
no, l’infermiera non sta bene?» Mi preoccupai. In quei sei anni di visite,
l’infermiera Venter era diventata un’amica; sapevo che il suo figlio minore si
sarebbe sposato a ottobre, finalmente, e la figlia
di
mezzo le aveva dato il primo nipotino un mese addietro, a luglio.
«Si
è buscata uno di quei raffreddori da fine estate», spiegò l’infermiera. «Oggi
voleva venire, ma le abbiamo consigliato di starsene a letto per tutto il
weekend.» L’infermiera nuova si fece da parte mentre io rimanevo in piedi. «Mi
ha detto che ti piace leggere a Charlie, vero?»
Annuii,
strinsi più forte la borsa. L’infermiera si fermò alla porta, si sfilò il
cartellino col nome che portava fissato al petto con una
molletta
e lo passò davanti a un sensore sulla parete. Sentii uno scatto e poi
l’infermiera spinse la porta.
«Negli
ultimi due giorni non è stato troppo male. Certo, non sta bene quanto
vorremmo», continuò,
mentre
entravamo nel corridoio ampio e ben illuminato. Le pareti erano bianche e
spoglie: nessuna personalità, niente di niente. «Ma stamattina si è svegliato
presto.»
Le
mie infradito di un verde acceso sbattevano sulle mattonelle del pavimento, ma
le scarpe da ginnastica dell’infermiera non facevano nessun rumore. Passammo
nel corridoio che conduceva, lo sapevo, alla sala comune. A Charlie non era mai
piaciuto quel posto, ed era strano, perché prima... prima dell’incidente era
una persona molto socievole.
Era
un mucchio di cose, prima.
La
sua stanza era in fondo a un altro corridoio, in un reparto progettato per
offrire una bella vista sulla campagna e una piscina terapeutica che Charlie
non aveva mai usato. Non era un buon nuotatore neanche prima, ma ogni volta che
vedevo quella maledetta piscina là fuori mi veniva voglia di prendere a pugni
qualcosa o qualcuno. Non so perché, forse perché era una cosa che chiunque
altro dava per scontata – la capacità di nuotare da soli – o forse perché
l’acqua mi dava un’idea di libertà, mentre il
futuro
di Charlie era gravemente vincolato.
L’infermiera
si fermò fuori dalla porta chiusa della sua stanza. «Quand’è il momento di
andartene, sai cosa devi fare.»
Lo
sapevo. Prima di andar via dovevo passare al banco delle infermiere e firmare
per l’uscita. Evidentemente volevano assicurarsi che non cercassi di rapire
Charlie. L’infermiera si accomiatò con un allegro cenno del capo, girò sui
tacchi e si riavviò in corridoio a lunghi passi.
Restai
a fissare la porta per un momento, inspirai a fondo ed espirai lentamente.
Dovevo fare così ogni volta che andavo da Charlie, prima di entrare nella
stanza: era l’unico modo per sbarazzarmi del groviglio di emozioni – la
delusione, la rabbia, la tristezza – che non volevo fargli vedere. A volte non
ci riuscivo, ma ci provavo sempre. Quando valutai che sarei riuscita a
sorridere senza sembrare una squilibrata, aprii la porta; e, come ogni venerdì
degli ultimi sei anni, vedere Charlie fu un pugno allo stomaco.
Era
seduto davanti alla grande portafinestra: sulla sua poltrona. Era una di
quelle poltroncine rotonde, con l’imbottitura di un azzurro acceso. La
possedeva da quando aveva sedici anni, gliel’avevano regalata per il compleanno
pochi mesi prima che la sua vita cambiasse di colpo.
Non
alzò lo sguardo quando entrai nella stanza e richiusi la porta. Non lo faceva
mai.
La
stanza non era male: piuttosto spaziosa, con un letto non troppo stretto e ben
rifatto dalle infermiere, una scrivania che Charlie non usava mai e un
televisore che mai, in sei anni, avevo visto acceso.
Lo
osservai, seduto sulla poltroncina a guardare fuori dalla finestra: era più che
snello, anzi era decisamente magro. L’infermiera Venter mi aveva detto che
faticavano a fargli mangiare tre pasti al giorno, e avevano tentato invano di
suddividerli in cinque più piccoli, ma neanche quello aveva funzionato. A un
certo punto, l’anno prima, la situazione si era fatta così grave che avevano
dovuto alimentarlo con una sonda gastrica. Sentivo ancora in bocca il sapore di
quella paura: in quel periodo avevo temuto di perderlo. I capelli biondi gli
erano stati lavati quella mattina, ma non glieli avevano pettinati ed erano
molto più corti di come li portava prima: aveva sempre adorato quell’acconciatura
scompigliata ad arte, che gli stava benissimo. Quel giorno indossava una
maglietta bianca e pantaloni della tuta grigi, e neanche di
quelli
alla moda: no, erano quelli con l’elastico alle caviglie. Dio mio, avrebbe
scatenato l’inferno se avesse saputo di indossarli... E avrebbe avuto ragione,
perché Charlie... be’, aveva stile, buon gusto, classe...
Mi
schiarii la voce e mi avvicinai alla seconda poltroncina, con l’imbottitura
dello stesso colore, che avevo comprato tre anni prima. «Ciao, Charlie.»
Non
mi guardò.
Non
mi sentii delusa. Cioè, pensai come sempre che fosse un’ingiustizia, ma non mi
assalì una nuova ondata di sconforto, perché ormai c’ero abituata.
Mi
sedetti e posai la borsa a terra. Da vicino dimostrava più di ventidue anni,
diversi anni in più. Il volto scavato, il pallore, le occhiaie sotto le iridi
verdi che un tempo sprizzavano energia. Feci un altro lungo respiro. «Fa
caldissimo oggi, perciò non prendermi in giro per i calzoncini.»
All’epoca
mi avrebbe imposto di cambiarmi prima che osassi farmi vedere in pubblico. «Il
meteo prevede temperature record nel fine settimana.»
Charlie
batté lentamente le palpebre.
«E
anche qualche brutto temporale.» Giunsi le mani, come pregando che mi
guardasse. Durante certe visite non lo faceva mai. Non era successo nelle
ultime tre, e questo mi terrorizzava: perché l’ultima volta che aveva trascorso
tanto tempo senza guardarmi, poi aveva avuto un attacco epilettico fortissimo.
Probabilmente
le due cose non erano collegate, ma lo stomaco mi si annodò lo stesso.
L’infermiera Venter mi aveva spiegato che gli attacchi epilettici sono
piuttosto frequenti nei pazienti reduci da quel tipo di trauma cranico.
«Ricordi quanto mi piacciono i temporali, vero?»
Nessuna
risposta.
«Be’,
quando non generano trombe d’aria», precisai. «Ma siamo a Philadelphia, perciò
dubito che verrà un tornado.»
Un
altro lento battito di palpebre.
«Ah!
Domani sera chiudiamo il Mona’s al pubblico», blaterai, non ricordando se gli
avessi già parlato di quel progetto, ma tanto non faceva differenza. «È una festa
privata.» Feci una pausa abbastanza lunga da poter fare un respiro.
Charlie
guardava ancora fuori dalla finestra.
«Penso
che ti piacerebbe, il Mona’s. È un posto un po’ volgare, ma in senso buono,
diciamo così. Ma te l’avevo già detto. Non lo so, ma vorrei...» Lo vidi alzare
le spalle e fare un lungo sospiro, e strinsi le labbra. «Vorrei tante cose»,
finii in un sussurro.
Aveva
iniziato a dondolarsi, come sovrappensiero. Un ritmo lento, che mi faceva
pensare all’oceano, a una barca sospinta lentamente avanti e indietro.
Per
un momento combattei contro l’impulso di gridare, per sfogare la frustrazione
che si andava accumulando rapidamente
dentro di me. Charlie era un gran chiacchierone: alle elementari, le maestre
l’avevano soprannominato La Boccaccia, e quando rideva... santo cielo, aveva
una risata fantastica, contagiosa e sincera.
Ma
da anni non rideva più.
Chiusi
gli occhi per ricacciare indietro le lacrime. Avrei voluto rotolarmi a terra e
singhiozzare. Era tutto così ingiusto. Charlie avrebbe dovuto camminare con le
sue gambe, ormai avrebbe dovuto essere già laureato ed essersi trovato un bel
ragazzo con cui uscire in doppia coppia insieme con me e il mio fidanzato di
turno. Avrebbe dovuto pubblicare un romanzo, come si era ripromesso. Così oggi
saremmo ancora quelli che eravamo prima: amici del cuore, inseparabili. Sarebbe
venuto a trovarmi al bar, sarebbe intervenuto nel momento del bisogno, dicendomi
di piantarla coi piagnistei.
Avrebbe
dovuto continuare a vivere. Perché quella, qualsiasi cosa fosse, non era vita.
E
invece, accidenti, era bastata una maledetta sera, qualche parola stupida e un
maledetto sasso, per distruggere tutto.
Aprii
gli occhi, sperando che lui mi guardasse, ma non fu così. Trattenendo a
malapena le lacrime, mi chinai a tirar fuori dalla borsa un disegno
all’acquerello piegato in due. «Questo l’ho fatto per te.»
Proseguii
con la voce incrinata. «Ti ricordi quando avevamo quindici anni e i miei
genitori ci hanno portati a Gettysburg? Ti è piaciuto tanto il Devil’s Den,
perciò l’ho disegnato.»
Aprii
il foglio e glielo mostrai, anche se lui non lo guardava. Avevo impiegato
diverse ore nel corso della settimana per dipingere le rocce brune e i prati
verdi, per azzeccare il colore dei massi e della
ghiaia.
Le ombreggiature erano state la parte più difficile, essendo all’acquerello, ma
il risultato mi sembrava niente male.
Mi
alzai e raggiunsi la parete di fronte al letto. Tirai fuori una puntina dal
cassetto della scrivania e appesi il dipinto accanto agli altri. Ce n’era uno
per ogni settimana in cui ero venuta a trovarlo.
Trecentododici
dipinti.
Feci
correre lo sguardo sulle pareti. I miei preferiti erano i ritratti di Charlie:
io e lui insieme quand’eravamo piccoli. Stavo per finire lo spazio: presto
avrei dovuto iniziare ad attaccarli sul soffitto.
Tutti
quei dipinti raffiguravano... il passato. Nulla sul presente o il futuro. Solo
un muro pieno di ricordi.
Tornai
alla poltroncina e tirai fuori il libro che avevo iniziato a leggergli, New
Moon. Eravamo riusciti a vedere insieme il primo film, e quasi anche il
secondo. Mentre aprivo il libro alla pagina cui ero arrivata l’ultima volta,
pensai che Charlie avrebbe parteggiato per il Team Jacob. Non era il tipo da vampiri
emo, lui. Era la quarta volta che gli leggevo quel libro, ma sembrava che gli
piacesse. O almeno così mi dicevo.
Neppure
una volta si girò a guardarmi, nell’ora che trascorsi con lui. E, mentre
radunavo le mie cose per andarmene, sentivo il cuore pesante come quel sasso
che aveva cambiato tutto. Mi chinai su di lui.
«Guardami,
Charlie.» Aspettai un momento, mi si serrò la gola. «Per favore.»
Charlie...
batté le palpebre e continuò a dondolarsi lentamente. Avanti e indietro.
Nient’altro.
Aspettai
per cinque minuti interi una reazione, una reazione qualsiasi, ma non arrivò.
Con
le lacrime agli occhi, gli baciai la guancia fresca e mi tirai in piedi. «Ci
vediamo venerdì prossimo, va bene?»
Finsi
che rispondesse di sì. Solo così potevo uscire da quella stanza e chiudermi la
porta alle spalle.
Firmai
il registro, e mentre mi ributtavo nell’afa tirai fuori gli occhiali da sole e
li inforcai. La calura di
quella
giornata fece meraviglie per la mia pelle fredda, ma non riuscì a sciogliere il
gelo che avevo dentro. Era sempre così quando tornavo da una visita a Charlie,
e quel gelo sarebbe passato solo all’inizio del turno al Mona’s.
Mentre
attraversavo il parcheggio diretta alla mia macchina, imprecai.
Guardando
il calore alzarsi dal cemento, immediatamente mi chiesi quali colori avrei dovuto
mescolare per riprodurre quell’effetto su una tela. Poi vidi la mia fidata
Volkswagen Jetta e non pensai più agli acquerelli. Mi venne un groppo in gola e
rischiai d’inciampare. Accanto alla mia macchina c’era un bel pick-up quasi
nuovo.
Era
nero. Lo conoscevo.
Una
volta l’avevo guidato.
Oh,
cavoli.
I
miei piedi rifiutavano di muoversi. Ero impietrita.
Il
mio peggior nemico era lì, e stranamente era la stessa persona che aveva un
ruolo da protagonista
in
tutte le mie fantasie, anche quelle più volgari... anzi, soprattutto in quelle.
Reece Anders era lì, e io non sapevo se tirargli
un calcio nelle palle o baciarlo.
Che ne pensate?
Vi incuriosisce? Per saperne di più, non vi resta
che aspettare la nostra prossima traduzione, solo su AnniDiNuvole :)
Un abbraccio e buona lettura!
Robi
Nessun commento:
Posta un commento