domenica 6 marzo 2016

Anteprima: Il nostro attimo infinito


Buon pomeriggio lettori!
Come sta procedendo questa domenica? Spero bene ma se così non fosse... non disperate. Ci siamo noi, pronte a farvi scoprire un nuovissimo libro che sarà in libreria il 19 di questo mese.
Di cosa sto parlando? Ma semplice... continuate nella lettura.






TramaMaggie Young è una ragazza come tante altre: ha amici tranquilli, genitori comuni, voti nella media… insomma, una vita normale. Almeno fino a quando non incontra lui: Clayton Reed, un ragazzo in perenne fuga dal passato, che lotta per liberarsi dai demoni che vorrebbero trascinarlo nell’abisso. Clayton non ha mai pensato di poter aspirare a un briciolo di felicità. Almeno finché non ha incontrato lei. Maggie è convinta che il loro amore potrà superare tutti i problemi. Clay è sicuro che lei sia tutto ciò di cui ha bisogno per mettere finalmente ordine nella sua vita incasinata. Insieme, potranno affrontare il mondo intero. Ma le tenebre sono sempre là fuori, in agguato. E talvolta il più grande ostacolo al vero amore è dentro di noi.

La  serie Find you in the dark, composta da:

1- Il nostro attimo infinito (in Italia dal 19 marzo)
1.5- Cloud walking
2- Light in the shadows
2.5- Warmth in ice


Capitolo I

“Mi stai prendendo in giro.” Grugnii, dando un calcio alla gomma della mia Toyota Corolla scassata che si era gentilmente rifiutata di funzionare. In piedi in mezzo alla strada, tirai fuori ogni imprecazione immaginabile, mentre i minuti scandivano lentamente il mio ritardo. “Non parte di nuovo, Maggie?” Mio padre aveva fatto sbucare la testa dalla zanzariera. Probabilmente era stato messo al corrente della mia situazione imbarazzante dalla mia filippica degna di uno scaricatore di porto.

Sospirando, chiusi la portiera dell’auto sbattendola, e raccolsi la mia postina. “Nooo…” strascicai la parole con tono stanco e sconfitto. Mio padre mi tenne la porta aperta, mentre mi dirigevo di nuovo verso casa. “Non l’avevi comprata in un negozio appena due settimane fa?” Chiese mio padre vedendomi lanciare la borsa sul tavolo della cucina e lanciarmi su una sedia.

Avevo un diavolo per capello per la frustrazione, e non mi disturbai a rispondergli. Quel giorno stava andando tutto così teatralmente male. Non mi sarei dovuta preoccupare di alzarmi dal letto. Forse avrei potuto fingere una tosse o qualcosa del genere per convincere mio papà a farmi stare a casa.

Mio padre diede un morso al toast, e alcune briciole caddero tra la barba ben tagliata. “Beh, ti porto a scuola io. Non puoi saltare quell’importante compito di chimica.” Mi fece l’occhiolino, come se potesse leggere il mio piano interiore per saltare scuola.

Grugnii per la milionesima volta in quella mattina. Avevo completamente scordato di avere un test, ma ovviamente mio papà, con la sua memoria da elefante, se ne ricordava. Beh, questo mandava completamente all’aria ogni possibilità che quello fosse un giorno positivo. Buon stupido lunedì.

“Maggie May, che cosa ci fai ancora qui? L’ultima campanella suona tra T meno dieci minuti.” Mia madre arrivò tranquillamente in cucina, si versò una tazza di caffè e consultò il suo orologio per assicurarsi di non aver sbagliato a dire l’ora. Guardando la mia seriosissima, bellissima e dall’aspetto fantastico mamma in carriera, mi domandai, e non per la prima volta, come potessi essere stata creata in parte dal suo DNA. Era il contrario di me in tutto e per tutto. Laddove mia madre aveva capelli biondi perfetti per la pubblicità di uno shampoo, i miei erano castano topo, spenti, e si rifiutavano di essere domati in una qualunque pettinatura considerata accettabile dalla moda. Mia mamma aveva un fisico perfetto, e non dimostrava per niente l’età che aveva. Invece io avevo la sfortuna di essere soprannominata “tardo bocciolo”. La mia tralasciabile taglia di reggiseno e i miei fianchi inesistenti erano davvero poco per cui vantarsi.

Ma avevo i suoi occhi. E devo dire, permettendomi di non essere modesta, che erano bellissimi. Adoravo che condividessimo lo stesso verde brillante e le ciglia scure. Erano la mia migliore caratteristica, tralasciando il mio straordinario senso dell’umorismo e la mia fantastica personalità, ovviamente, e ricevevo una buona quantità di complimenti grazie a loro. Quindi no, non potevo essere considerata orrenda o cose del genere ma, come la maggior parte degli adolescenti, ero tutto meno che soddisfatta di me stessa.

“La sua auto non partiva. Mi sto preparando per accompagnarla a scuola.” Si intromise mio padre prima che potessi rispondere. Mia mamma mi rivolse un sorriso empatico prima di dare a suo marito un bacio odiosamente dolce. Erano davvero nauseanti alle volte, per il modo in cui erano ancora così innamorati l’uno dell’altro. La realtà dei fatti era che io desideravo la stessa cosa, e passavo un sacco di tempo a impazzire chiedendomi se mai l’avrei trovata. Ma avrei riservato quell’attacco di panico ad un altro momento.

“Questa volta possiamo aiutarti con l’auto, lo sai. Hai lavorato molto duramente durante l’estate per potertela comprare, e non ha fatto altro che avere problemi dal momento in cui l’hai parcheggiata qui fuori.” Mia mamma, nonostante il suo perfetto aspetto da Barbie e la sua personalità pragmatica, era fantastica. Presi il bagel che mi stava offrendo e leccai il cremoso formaggio dalla cima.

“Grazie, ma ho ancora qualche risparmio. Spero solo di non dover cambiare tutto il motore o qualcosa del genere.” Borbottai. Mia mamma mi scompigliò i capelli come se avessi ancora cinque anni e raccolse la sua borsa succinta. “Beh, Marty, se hai tutto sotto controllo, io dovrei andare in ufficio. Probabilmente questa sera farò tardi.” Mia mamma dirigeva la sua azienda di contabilità in città, e lavorava un sacco.

Si piegò, mi diede un bacio veloce sulla fronte, ne diede un altro rumoroso a papà, e se ne andò. Mi ficcai in bocca quello che restava del mio bagel, e mi strofinai la bocca con il dorso della mano. Un tovagliolo apparse sotto il mio naso. “Non penso che tu sia cresciuta in un porcile, Maggie.” Scherzò mio padre. Sfiorai leggermente il tovagliolo con la bocca, giusto per farlo contento.

“Esci e vai verso la macchina, io ti raggiungo lì. Telefona all’officina di Burt in giornata, verranno a prendere l’auto con il rimorchio. Io e mamma pagheremo il rimorchio e tu pagherai le riparazioni. Affare fatto?” Mio papà mise la tazza di tè nel lavandino e la riempì d’acqua. Mi sentivo in colpa a pensiero che i miei genitori pagassero per la mia auto, in qualsiasi forma o modo.

Ero stata io ad insistere per comprare quella merda mobile che c’era fuori. Mio papà voleva che mi guardassi in giro di più, che facessi una ricerca su CARFAX e tutte quelle cose che io, ovviamente, non avevo ascoltato perché a diciassette anni pensavo di saperne molto di più dei miei. Beh, imparai la lezione nel peggiore dei modi.

Però sapevo che nemmeno in un mondo ideale avrei avuto i soldi per pagare sia il trasporto che le riparazioni. I soldi che avevo risparmiato lavorando al banco dei gelati durante l’estate erano quasi finiti, e avrei presto dovuto ricominciare a vivere a scrocco, se non avessi trovato un altro modo per guadagnare.

Mormorai qualcosa di incomprensibile, senza preoccuparmi di formulare delle frasi di senso compiuto, e mio padre si limitò a ridere sotto i baffi. “Lo interpreterò come un ringraziamento.” Disse, scacciandomi dalla cucina. Raggiunsi il furgoncino di famiglia, senza pensare troppo a quanto fosse mortificante che mio padre, un bibliotecario, mi portasse a scuola. Se non fossi stata così di cattivo umore, avrei apprezzato la gentilezza di mio papà.

Dal punto di vista dei genitori, ero davvero fortunata. Mia mamma e mio papà sembravano sempre in grado di gestire senza problemi i miei umori adolescenziali e non stavano impazzendo. Non che avessi fatto molto per farli impazzire, durante i miei diciassette anni.

Ero la tipica adolescente che viveva in una piccola città degli Stati Uniti (o Davidson, in Virginia, se davvero volete saperlo) al limite del cliché e dello stereotipo. La mia vita era stata per lo più banale e piatta, figlia unica della reginetta di bellezza locale e del secchione di cui si era innamorata. Avevamo una vita da famiglia del Mulino Bianco, fatta di cene insieme e partite a Monopoli del giovedì, mercoledì se mamma decideva che era la settimana di Bunco.

I miei migliori amici, Rachel Bradfield e Daniel Lowe, erano stati i miei complici in tutto fin da quando eravamo nella pancia delle nostre madri che erano cresciute insieme, ed era stato deciso a priori che saremmo diventati inseparabili come lo erano state loro.

Ero piuttosto intelligente, avevo una media abbastanza alta e l’aspirazione di andare al college, proprio come i miei amici. Facevo i compiti, seguivo le regole e in pratica mi annoiavo a morte. Quello che ero non era altro che profonda monotonia delle dimensioni di un cratere. Che triste essere all’ultimo anno di liceo ed essere già stufa di tutto. E l’anno era appena cominciato! Era solo la terza settimana di settembre!

Quindi, il fatto che quella mattina la mia auto si rifiutasse di collaborare non fece che aggiungersi al mio senso di malessere generale. Aspettai con impazienza seduta sul sedile del passeggero, tamburellando le dita sul cruscotto a ritmo imperfetto. “Bene, Maggina, allaccia le cinture.” Il fatto che mio padre si ostinasse a chiamarmi come quando ero piccola (il che era solo leggermente meno irritante del fatto che mi avessero dato il nome di una canzone rock degli anni Settanta, il cui artista era un ragazzo con capelli orribili e un debole per le modelle), fu abbastanza irritante quella mattina. Non ero sicura che papà avesse realizzato che non avevo più dieci anni. I miei genitori avevano delle serie difficoltà ad accettare che ero – urca! – quasi un’adulta. Ad essere onesti, nella maggior parte dei giorni, inclusa quella mattina, non mi atteggiavo proprio come tale.

Tirai fuori il telefono per mandare un messaggio veloce a Rachel e Daniel, per far loro sapere che sarei arrivata in ritardo. A giudicare dall’ora, mi stavo almeno perdendo il noioso e doloroso discorso del vicepreside, il signor Kane, che leggeva gli annunci del mattino. Quando parlava sembrava sempre che dovesse soffiarsi il naso.

Quindi forse quella giornata era ancora salvabile. Cercai di ridurre la conversazione al minimo mentre mio papà percorreva pigramente la nostra piccola cittadina per portarmi a scuola. Canticchiava, piuttosto male, con i Righteous Brothers, la voce in un allarmante falsetto, e ondeggiava le spalle a ritmo.

Papà era così divertente che non potei evitare di far comparire la traccia di un leggero sorriso sul mio viso. Mi beccò, ovviamente, notando che la mia espressione da Emo aveva finalmente trovato una fine, e si lascò scappare un urletto. “Eccolo, il sorriso della mia bambina. Sapevo che si stava nascondendo da qualche parte.” Mio padre si avvicinò e mi solleticò sul fianco, cosa che mi fece divincolare e ridere a denti stretti. “Sei proprio uno stupido, papà.” Gli dissi per scherzo. Lui si limitò a sorridere e alzò il volume della radio.

La tortura delle mie orecchie non durò molto altro tempo, che ci ritrovammo di fronte al liceo Jackson. A malapena diedi a mio padre il tempo di rallentare, e mi lanciai fuori dal veicolo ancora in movimento.

“Non dimenticare di chiamare l’officina, in pausa pranzo.” Mi ricordò di nuovo papà. Gli rivolsi un saluto ironico, mi voltai e mi incamminai verso l’entrata. Mi rallegrai di vedere che non ero l’unica ad essere rimasta indietro, quella mattina. Una manciata di altri ragazzi stava correndo dal parcheggio.

Cercai goffamente di tirare fuori il telefono dalla tasca per inviare un ultimo messaggio ai miei amici per dire loro che ero arrivata. Stavo avendo non pochi problemi, nel tentativo di tirarlo fuori, tanto che mi distrassi talmente tanto da sbattere contro la schiena di qualcuno che si era fermato nel mezzo del marciapiede.

“Ehi!” urlai, mentre mi scontravo con un corpo molto solido. Mi scivolò il telefono e nella caduta si staccarono il retro e la batteria. Al ragazzo caddero i fogli che aveva in mano e si sparpagliarono ai suoi piedi.

Contemporaneamente, ci lasciammo sfuggire una serie di parolacce che mi avrebbero fatto guadagnare un mese pieno di sapone, se mia mamma mi avesse sentita. “Ma che cavolo?” ringhiò il ragazzo, piegandosi a raccogliere le cose che erano cadute durante il nostro scontro. Ok, avevo già un umore di merda, e il suo tono borioso era solo la ciliegina sulla torta, e forse ero stata goffa e tutto, ma non avevo bisogno di un tizio a caso che mi facesse penare.

“Oh, mi dispiace, mi sono persa il segnale dello STOP?” sbottai, senza preoccuparmi di guardare in faccia l’idiota, mentre cercavo di rimettere insieme i pezzi scassati del mio telefono.

Sentii quello che mi sembrò il suono di denti digrignati. “Suppongo che aspettarsi delle scuse sia chiedere troppo.” Il suo sarcasmo era ottuso, e pronunciò quelle parole a denti stretti.

“Probabile.” Ribattei, incrociando lo sguardo con il più fantastico paio di occhi castani che avessi mai visto. Cavoli! Suono di violini e coniglietti felici, ero nel bel mezzo di un momento Disney, perché il ragazzo era bellissimo. E ci trovavamo in piedi l’uno accanto all’altra. Se non fosse stato impegnato a trattenere la rabbia rivolta verso la sottoscritta, la situazione avrebbe potuto essere definita come minimo romantica.

Altra delusione che andava ad aggiungersi alla mia lista sempre più corposa.

Il Signor Carino se ne stava in piedi in tutta la sua infuriata gloria, ed era davvero arrabbiato. Il suo viso perfettamente simmetrico (coperto da una spolverata di adorabili lentiggini, aggiungerei), aveva assunto una sfumatura di rosso piuttosto preoccupante. Quei fantastici occhi castani che avevo appena notato erano rossi, come se fosse sul punto di commettere un omicidio. Era più alto di me di un bel po’, con capelli scuri che si arricciavano attorno alla fronte e alle orecchie, a dare l’impressione che fosse passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che li aveva tagliati. Aveva una fossetta sul mento, e una minuscola cicatrice sotto l’occhio destro. E nonostante fosse di ovvio bell’aspetto, in quel momento pareva decisamente sconvolto. Wow, erano solo fogli.

Carino fece un respiro profondo e chiuse gli occhi. Io ficcai le mani in tasca, e presi la decisione di abbandonare definitivamente quella cavolo di situazione. Cominciai a muovermi attorno a lui, assicurandomi di lasciargli uno spazio abbastanza largo. La sua voce, questa volta molto più calma, mi fermò. “Beh, potresti almeno dirmi dov’è l’ufficio principale, sai, dopo essermi corsa praticamente addosso.”

Se il suo tono fosse stato giocoso, sarei stata capace di fingere che stesse flirtando con me. Ma no, era brusco e irritato, e di pessimo umore. E io ne avevo abbastanza per quella mattina. Quindi bell’aspetto a parte, questo ragazzo poteva andare a quel paese.

“Sei un bambino grande, sono sicura che te la caverai benissimo da solo.” Mi voltai, e me ne andai velocemente. “Grazie tante.” Mi urlò dietro. Eh già, il ragazzo sexy aveva un caratteraccio. Non era esattamente la mia idea di divertimento e non avrei potuto correre via più velocemente.

Traduzione a cura di 
Valentina Deguidi








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