Salve lettori e bentornati nel blog con una nuovissima #anteprima.
Oggi vi diamo uno squarcio su una storia che approderà in Italia, ad aprile del nuovo anno, dalla Mondadori: "Things we know by heart", scritta dalla penna di Jessi Kirby.
Non ci resta che invitarvi a scoprire con noi queste nuovissime pagine che presto troveremo sui nostri scaffali.
Buona lettura!
PROLOGO
Cuore (n): organo cavo muscolare che pompa il
sangue nel sistema circolatorio attraverso contrazioni
e dilatazioni ritmiche;
il centro della personalità, con particolare
riferimento a intuizione e stati d’animo o emozioni; la parte centrale, più profonda o vitale di
qualcosa.
Definizione della parola "cuore".
Non so come sapessi, quando le sirene mi svegliarono
appena prima dell’alba, che si trattava di lui.
Non mi ricordo di essere saltata fuori dal letto, o di
essermi allacciata le scarpe.
Non ricordo che le mie gambe mi abbiano trascinata nel
vialetto, il tortuoso pezzo di strada in mezzo alle nostre case.
Non ricordo la sensazione dei miei piedi che calpestavano
il terreno, o dei miei polmoni che prendevano aria, o del mio corpo che facevo
i conti con ciò che nel mio cuore sapevo già essere vero. Ma, dopo tutto ciò,
ricordo ogni dettaglio.
Riesco a vedere le luci rosse e blu lampeggiare
vorticosamente contro l’alba ancora pallida. Riesco a sentire le voci strozzate
dei medici. Le parole trauma cranico
ripetute nella chiassosa baraonda delle loro radio in sottofondo. Ricordo i
profondi singhiozzi soffocati di una donna che nemmeno conoscevo né, ad oggi,
conosco. Il bizzarro angolo del suo SUV bianco, il cofano del quale era
nascosto dagli steli rotti e dai boccioli sparpagliati dei girasoli che
crescevano sul ciglio della strada. La recinzione in frantumi.
Ricordo i vetri come ghiaia, sparsi su tutto l’asfalto.
Sangue. Troppo.
E le sue scarpe, a suo fianco, in mezzo a tutto questo,
il cuore che avevo disegnato con l’indelebile nero, nella parte bassa.
Riesco ancora a sentire il vuoto che avvertii quando
raccolsi una scarpa, e il modo in cui l’assenza di peso mi fece cadere in
ginocchio.
Riesco a sentire la forte stretta delle sue mani che, coi
guanti, mi sollevavano e mi rimettevano a terra quando provavo a scappare da
lui.
Non me lo avrebbero permesso. Non volevano che lo
vedessi.
E dunque, tutto ciò che ricordo di quella mattina è di
essere stata in piedi sul ciglio della strada, da sola, l’oscurità che avanzava
attorno a me mentre un nuovo giorno cominciava.
La luce del sole del
mattino sui petali vivaci e colorati si disperdeva dove lui stava steso, a
morire.
CAPITOLO 1
“Comunicare con chi ha subito il trapianto
dell’organo può aiutare la famiglia del donatore a superare il proprio lutto.
In generale, le famiglie del donatore e del ricevente, così come i loro parenti
e amici, possono trarre beneficio dallo scambio di pensieri ed emozioni in
merito all’esperienza di donazione… il dono della vita… Possono volerci mesi o
anche anni prima che qualcuno si possa sentire pronto a cominciare una
corrispondenza, o forse non accadrà mai.”
-Alleanza per
Vita
Programma dei
Servizi
Alla Famiglia del
Donatore
Quattrocento
giorni.
Ripeto il numero
nella mia testa.
Lascio che
sovrasti il vuoto che provo mentre afferro il volante dell’auto. Non posso
lasciar perdere come ogni altro giorno. Il giorno numero quattrocento merita
qualcosa.
Come il giorno
numero trecentosessantacinque, in cui ho portato dei fiori a sua mamma, ma non
sulla sua tomba, perché sapevo che lui avrebbe voluto che li avesse lei.
O come il suo
compleanno, che cadeva quattro mesi, tre settimane e un giorno dopo. Giorno
numero centoquarantadue.
L’avevo passato
da sola, perché non riuscivo a sopportare di vedere i suoi genitori quel
giorno, e perché una piccola, segreta parte di me credeva davvero che se fossi
stata da sola, forse in qualche modo ci sarebbe stata una possibilità che lui
tornasse indietro, compisse diciotto anni, e riprendesse tutto da dove lo aveva
lasciato. Frequentare l’ultimo anno insieme, fare domanda agli stessi college,
andare agli ultimi balli scolastici, lanciare in aria i nostri tocchi il giorno
del diploma e baciarci alla luce del sole dell’inizio dei festeggiamenti.
Quando non tornò,
mi avvolsi nella felpa che ancora portava un vaghissimo cenno del suo odore, o
forse era solo la mia immaginazione. La tenni stretta attorno a me, ed espressi
un desiderio. Desiderai con tutta me stessa di non dover fare nessuna di queste
cose senza di lui. E il mio desiderio si avverò.
L’ultimo anno
divenne nebbia. Non inviai le domande ai college. Non andai a comprare il
vestito. Mi dimenticai perfino dell’esistenza del cielo o della luce del sole
sotto cui scambiarsi un bacio.
I giorni
passarono, uno dopo l’altro, misurati attraverso un ininterrotto ritmo senza
fine. Apparentemente infinito, ma sparito in uno schiocco di dita, come le onde
che si scontravano sul bagnasciuga, o lo scorrere delle stagioni.
Il battito di un
cuore.
Trent aveva il
cuore di un atleta: forte, stabile, più lento del mio di dieci battiti al
minuto. Prima, accostavamo i nostri petti, e io rallentavo il mio respiro per
accordarlo al suo, e provavo a indurre il mio polso a fare lo stesso; ma non
funzionò mai.
Persino dopo tre
anni la sua sola vicinanza mi faceva accelerare battito.
Ma trovammo
insieme la nostra sincronia, il suo cuore pompando battiti lenti e stabili, e
il mio riempiendo gli spazi lasciato vuoti dal suo.
Quattrocento
giorni e troppi battiti da contare.
Quattrocento
giorni e troppi luoghi o momenti in cui Trent non esisteva più. E ancora
nessuna risposta dal solo e unico posto in cui esiste.
Un clacson
strombazza dietro di me, strappandomi dai miei pensieri e dalla sensazione di nausea
nervosa che mi pervadeva lo stomaco. Nello specchietto retrovisore riesco a
vedere l’autista imprecare mentre mi scarta bruscamente, una mano arrabbiata
alzata per aria, le labbra che sputano una domanda contro il parabrezza: Che cosa diavolo stai facendo?
Mi chiesi la
stessa cosa quando entrai in auto. Non sono sicura di cosa sto facendo, so solo che devo farlo perché devo vederlo, per
me stessa. Per il modo in cui vedere gli altri mi ha fatto sentire.
Norah Walker è
stata la prima ricevente a prendere contatti con la famiglia di Trent, sebbene
loro non avessero scoperto il suo nome fino a dopo il trapianto.
I riceventi
possono mettersi in contatto con la famiglia del donatore in qualunque momento
attraverso il coordinatore del trapianto e vice versa, ma la lettera sorprese
tutti noi ugualmente. La mamma di Trent mi chiamò il giorno dopo aver ricevuto
la telefonata, e mi chiese di andare a trovarla; ci sedemmo insieme nel
luminoso soggiorno, nella casa pregna di così tanto ricordi, a cominciare dal giorno
in cui ci passai accanto per la quinta volta, sperando che mi notasse.
Il suono dei suoi
passi che provavano a raggiungere i miei mi fecero rallentare abbastanza da
permetterglielo. La sua voce, ancora sconosciuta per me, provava a pronunciare
le parole tra un respiro e l’altro.
“Ehi!”
Respiro.
“Aspetta!”
Respiro.
Avevamo
quattordici anni. Sconosciuti fino a quel momento, fino a quelle due parole.
Quando mi sedetti
a casa si Trent con sua mamma, sul divano su cui io e lui guardavamo film e
mangiavamo popcorn dalla stessa ciotola, sono state le parole di una
sconosciuta e la gratitudine in esse che mi scossero dall’oscurità, luogo
solitario in cui avevo vissuto per troppo tempo. La sua lettera, scritta da una
mano tremolante su una carta bellissima, sollevò qualcosa in me quel giorno.
Era umile, profondamente dispiaciuta per la morte di Trent. Estremamente grata
per la vita che lui le aveva regalato.
Andai a casa
quella notte e le risposi, dedicandole un personale ringraziamento per il
momento di serenità che mi aveva
concesso con le sue parole. E la notte dopo, scrissi ad un altro ricevente, e
un altro ancora, cinque in tutto. Lettere anonime a persone anonime che volevo
conoscere. E quando inviavo quelle lettere al coordinatore del trapianto per
spedirle a sua volta, la mia esile speranza era che loro mi rispondessero. Che
mi notassero come aveva fatto lui.
Do un’occhiata oltre la mia spalla e lui è
lì, sorridente, mentre raccoglie un girasole più alto di me, lo stelo che si
portava dietro radici e tutto il resto.
“Sono Trent,” mi dice. “Mi sono appena trasferito
in fondo alla strada. Tu devi vivere qui vicino, mi sbaglio? Ti ho vista
passare correndo tutte le mattine, questa settimana. Sei veloce.”
Mi mordo il labbro inferiore mentre
camminiamo. Sorrido, dentro di me. Provo a non confessare che ho riservato la
mia velocità per il vialetto di fronte a casa sua ogni giorno da quando il
furgone dei traslochi era entrato nella via e lui ne era uscito.
“Sono Quinn.” dico.
Respiro.
Scrivere quelle
lettere mi faceva sentire come se riuscissi a respirare di nuovo. Scrivevo di
Trent e di tutto ciò che mi aveva regalato quando era vivo: la sensazione che
potevo fare qualsiasi cosa, la felicità, l’amore. Le lettere erano un modo per
onorare la sua memoria, e una speranza per qualcosa in più. Una mano anonima
che cercava di colmare il vuoto, in cerca di una connessione.
Una risposta.
Rido, perché è ancora senza fiato, e perché
sembra non ricordarsi del girasole gigante che ciondola dalle sue mani.
“Oh,” dice, seguendo il mio sguardo, “questo
sarebbe per te. Io…” Fa scorrere una mano nervosa tra i capelli. “Io, ehm, l’ho
preso laggiù, vicino a quella recinzione.”
Me lo porge, e ride. È un suono che voglio
sentire continuamente.
“Grazie,” rispondo. Allungo le braccia per prenderlo.
Il suo primo rigalo in assoluto.
Ho ricevuto
quattro risposte dalle persone a cui ha donato gli organi.
Dopo
duecentottantadue giorni, molti botta e risposta, moduli di consenso e apposite
consulenze di preparazione all’incontro, io e sua madre siamo andate insieme
all’ufficio Servizi alla Famiglia del Donatore e ci siamo sedute fianco a
fianco mentre aspettavamo che arrivassero, che potessimo incontrarli faccia a
faccia.
Come Norah era
stata la prima ad aprire la conversazione, è stata anche la prima anche ad
allungare la mano verso di noi e, nonostante tutte le volte in cui ho immaginato
di incontrarla, non ero per niente preparata alla sensazione che ho provato
quando le ho stretto la mano e l’ho guardata negli occhi, sapendo che in lei
c’era anche una parte di Trent. Una parte che le aveva salvato la vita e le
aveva regalato la possibilità di essere la mamma della bimba dai capelli ricci
che sbucava da dietro le sue gambe, e la moglie dell’uomo che piangeva, in
piedi accanto a lei.
Quando ha respirato
profondamente con i polmoni di Trent e si è portata la mia mano al petto in
modo che io potessi sentirli contrarsi ed espandersi, il mio cuore si è
contratto con loro.
La stessa cosa è
successa con le altre persone che ho incontrato. Luke Palmer, più vecchio di me
di sette anni, che ci ha suonato una canzone con la chitarra, e che poteva
farlo solo perché Trent gli aveva donato un rene. C’era John Williamson, un
signore sulla cinquantina tranquillo e cordiale, che ha scritto bellissime e poetiche
lettere sul modo in cui la sua vita era cambiata da quando aveva ricevuto il
trapianto di fegato, ma che non trovava le parole giuste con cui parlarci, in
quella piccola sala ricevimento. E poi c’era Ingrid Stone, una donna i cui
occhi azzurro chiaro erano così diversi da quelli castani di Trent, la quale
grazie a loro poteva vedere il mondo di nuovo e dipingerlo sulle sue tele con
colori vivaci.
Dicono che il
tempo guarisca tutte le ferite, ma quel pomeriggio, incontrare quelle persone,
una famiglia improvvisata tenuta insieme da un solo essere umano, mi ha guarita
molto più di tutto il tempo che era trascorso fino a quel momento.
È questa la
ragione per cui, quando giorno dopo giorno continuavo a non ricevere risposte
dall’ultimo ricevente, ho cominciato a cercarlo. È questa la ragione per cui ho
fatto delle ricerche, collegando appuntamenti con nuove storie e nuovi
ospedali, fino a che non l’ho trovato, senza troppe difficoltà. Quasi non ci
credevo. È anche la ragione per cui, di fronte a tutti gli altri, ho finto di
comprendere il motivo per il quale non rispondeva. Il motivo per il quale, come
la signora dei Servizi alla Famiglia del Donatore ci aveva spiegato, alcune
persone non rispondono mai, ed è una loro scelta.
Mi sono
comportata come se non pensassi a lui ogni giorno e come se non mi domandassi
il perché della sua scelta. Come se avessi fatto pace con questo fatto. Ma
quando sono sola, durante le ore infinite che tendono all’eternità, prima che
venga mattina, arrivo sempre alla stessa verità: non lo accetto nemmeno un po’.
E non so se ci riuscirò mai, a meno che non faccia questo.
Non so cosa ne
penserebbe Trent, se lo sapesse. Cosa mi direbbe, se potesse in qualche modo vedere.
Ma sono passati quattrocento giorni, e spero che capirebbe.
Per tantissimo
tempo il suo cuore è appartenuto a me, ho solo bisogno di vedere dove si trova
adesso.
A cura di Valentina Deguidi
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