domenica 6 dicembre 2015

Anteprima: Things we know by heart


Salve lettori e bentornati nel blog con una nuovissima #anteprima.
Oggi vi diamo uno squarcio su una storia che approderà in Italia, ad aprile del nuovo anno, dalla Mondadori: "Things we know by heart", scritta dalla penna di Jessi Kirby.
Non ci resta che invitarvi a scoprire con noi queste nuovissime pagine che presto troveremo sui nostri scaffali.
Buona lettura!



Trama: Quando Quinn incontra il ricevente cuore del suo fidanzato, i due hanno un'inaspettata connessione. Dopo aver perso il fidanzato, Trent, in un incidente stradale al penultimo anno del liceo, lei cerca di mettersi in contatto con i riceventi degli organi del ragazzo, così da poter mettere insieme i pezzi della sua irriconoscibile vita. Riesce a sentire alcuni di loro, ma non colui che ha ricevuto il cuore. Ha sempre creduto che in quell'organo fosse custodita l'essenza di una persona e quando troverà quello di Trent tutto potrà sistemarsi. Quinn va fuori dal sistema per poter rintracciare il diciannovenne Colton Thomas, la cui vita è stata capovolta da questo dono inaspettato. Ma quello che all'inizio è un semplice incontro, sembra trasformarsi in qualcosa di più, sembra esserci la fiamma di una strana attrazione. Non vuole arrendersi a questo sentimento, soprattutto dato che lui non ha idea di cosa li lega, ma per la prima volta dopo tanto tempo si sente viva. E anche se, giorno dopo giorno, si innamora sempre più di lui... Ogni battito del suo cuore le ricorda cosa ha perso. E che deve rischiare di nuovo.


PROLOGO

Cuore (n): organo cavo muscolare che pompa il sangue nel sistema circolatorio attraverso contrazioni e dilatazioni ritmiche;
il centro della personalità, con particolare riferimento a intuizione e stati d’animo o emozioni; la parte centrale, più profonda o vitale di qualcosa.

Definizione della parola "cuore".

Non so come sapessi, quando le sirene mi svegliarono appena prima dell’alba, che si trattava di lui.
Non mi ricordo di essere saltata fuori dal letto, o di essermi allacciata le scarpe.
Non ricordo che le mie gambe mi abbiano trascinata nel vialetto, il tortuoso pezzo di strada in mezzo alle nostre case.
Non ricordo la sensazione dei miei piedi che calpestavano il terreno, o dei miei polmoni che prendevano aria, o del mio corpo che facevo i conti con ciò che nel mio cuore sapevo già essere vero. Ma, dopo tutto ciò, ricordo ogni dettaglio.
Riesco a vedere le luci rosse e blu lampeggiare vorticosamente contro l’alba ancora pallida. Riesco a sentire le voci strozzate dei medici. Le parole trauma cranico ripetute nella chiassosa baraonda delle loro radio in sottofondo. Ricordo i profondi singhiozzi soffocati di una donna che nemmeno conoscevo né, ad oggi, conosco. Il bizzarro angolo del suo SUV bianco, il cofano del quale era nascosto dagli steli rotti e dai boccioli sparpagliati dei girasoli che crescevano sul ciglio della strada. La recinzione in frantumi.
Ricordo i vetri come ghiaia, sparsi su tutto l’asfalto.
Sangue. Troppo.
E le sue scarpe, a suo fianco, in mezzo a tutto questo, il cuore che avevo disegnato con l’indelebile nero, nella parte bassa.
Riesco ancora a sentire il vuoto che avvertii quando raccolsi una scarpa, e il modo in cui l’assenza di peso mi fece cadere in ginocchio.
Riesco a sentire la forte stretta delle sue mani che, coi guanti, mi sollevavano e mi rimettevano a terra quando provavo a scappare da lui.
Non me lo avrebbero permesso. Non volevano che lo vedessi.
E dunque, tutto ciò che ricordo di quella mattina è di essere stata in piedi sul ciglio della strada, da sola, l’oscurità che avanzava attorno a me mentre un nuovo giorno cominciava.
La luce del sole del mattino sui petali vivaci e colorati si disperdeva dove lui stava steso, a morire.

CAPITOLO 1

“Comunicare con chi ha subito il trapianto dell’organo può aiutare la famiglia del donatore a superare il proprio lutto. In generale, le famiglie del donatore e del ricevente, così come i loro parenti e amici, possono trarre beneficio dallo scambio di pensieri ed emozioni in merito all’esperienza di donazione… il dono della vita… Possono volerci mesi o anche anni prima che qualcuno si possa sentire pronto a cominciare una corrispondenza, o forse non accadrà mai.”

-Alleanza per Vita
Programma dei Servizi
Alla Famiglia del Donatore

Quattrocento giorni.
Ripeto il numero nella mia testa.
Lascio che sovrasti il vuoto che provo mentre afferro il volante dell’auto. Non posso lasciar perdere come ogni altro giorno. Il giorno numero quattrocento merita qualcosa.
Come il giorno numero trecentosessantacinque, in cui ho portato dei fiori a sua mamma, ma non sulla sua tomba, perché sapevo che lui avrebbe voluto che li avesse lei.
O come il suo compleanno, che cadeva quattro mesi, tre settimane e un giorno dopo. Giorno numero centoquarantadue.
L’avevo passato da sola, perché non riuscivo a sopportare di vedere i suoi genitori quel giorno, e perché una piccola, segreta parte di me credeva davvero che se fossi stata da sola, forse in qualche modo ci sarebbe stata una possibilità che lui tornasse indietro, compisse diciotto anni, e riprendesse tutto da dove lo aveva lasciato. Frequentare l’ultimo anno insieme, fare domanda agli stessi college, andare agli ultimi balli scolastici, lanciare in aria i nostri tocchi il giorno del diploma e baciarci alla luce del sole dell’inizio dei festeggiamenti.
Quando non tornò, mi avvolsi nella felpa che ancora portava un vaghissimo cenno del suo odore, o forse era solo la mia immaginazione. La tenni stretta attorno a me, ed espressi un desiderio. Desiderai con tutta me stessa di non dover fare nessuna di queste cose senza di lui. E il mio desiderio si avverò.
L’ultimo anno divenne nebbia. Non inviai le domande ai college. Non andai a comprare il vestito. Mi dimenticai perfino dell’esistenza del cielo o della luce del sole sotto cui scambiarsi un bacio.
I giorni passarono, uno dopo l’altro, misurati attraverso un ininterrotto ritmo senza fine. Apparentemente infinito, ma sparito in uno schiocco di dita, come le onde che si scontravano sul bagnasciuga, o lo scorrere delle stagioni.
Il battito di un cuore.
Trent aveva il cuore di un atleta: forte, stabile, più lento del mio di dieci battiti al minuto. Prima, accostavamo i nostri petti, e io rallentavo il mio respiro per accordarlo al suo, e provavo a indurre il mio polso a fare lo stesso; ma non funzionò mai.
Persino dopo tre anni la sua sola vicinanza mi faceva accelerare battito.
Ma trovammo insieme la nostra sincronia, il suo cuore pompando battiti lenti e stabili, e il mio riempiendo gli spazi lasciato vuoti dal suo.
Quattrocento giorni e troppi battiti da contare.
Quattrocento giorni e troppi luoghi o momenti in cui Trent non esisteva più. E ancora nessuna risposta dal solo e unico posto in cui esiste.
Un clacson strombazza dietro di me, strappandomi dai miei pensieri e dalla sensazione di nausea nervosa che mi pervadeva lo stomaco. Nello specchietto retrovisore riesco a vedere l’autista imprecare mentre mi scarta bruscamente, una mano arrabbiata alzata per aria, le labbra che sputano una domanda contro il parabrezza: Che cosa diavolo stai facendo?
Mi chiesi la stessa cosa quando entrai in auto. Non sono sicura di cosa sto facendo, so solo che devo farlo perché devo vederlo, per me stessa. Per il modo in cui vedere gli altri mi ha fatto sentire.
Norah Walker è stata la prima ricevente a prendere contatti con la famiglia di Trent, sebbene loro non avessero scoperto il suo nome fino a dopo il trapianto.
I riceventi possono mettersi in contatto con la famiglia del donatore in qualunque momento attraverso il coordinatore del trapianto e vice versa, ma la lettera sorprese tutti noi ugualmente. La mamma di Trent mi chiamò il giorno dopo aver ricevuto la telefonata, e mi chiese di andare a trovarla; ci sedemmo insieme nel luminoso soggiorno, nella casa pregna di così tanto ricordi, a cominciare dal giorno in cui ci passai accanto per la quinta volta, sperando che mi notasse.
Il suono dei suoi passi che provavano a raggiungere i miei mi fecero rallentare abbastanza da permetterglielo. La sua voce, ancora sconosciuta per me, provava a pronunciare le parole tra un respiro e l’altro.
“Ehi!”
Respiro.
“Aspetta!”
Respiro.
Avevamo quattordici anni. Sconosciuti fino a quel momento, fino a quelle due parole.
Quando mi sedetti a casa si Trent con sua mamma, sul divano su cui io e lui guardavamo film e mangiavamo popcorn dalla stessa ciotola, sono state le parole di una sconosciuta e la gratitudine in esse che mi scossero dall’oscurità, luogo solitario in cui avevo vissuto per troppo tempo. La sua lettera, scritta da una mano tremolante su una carta bellissima, sollevò qualcosa in me quel giorno. Era umile, profondamente dispiaciuta per la morte di Trent. Estremamente grata per la vita che lui le aveva regalato.
Andai a casa quella notte e le risposi, dedicandole un personale ringraziamento per il momento di serenità che  mi aveva concesso con le sue parole. E la notte dopo, scrissi ad un altro ricevente, e un altro ancora, cinque in tutto. Lettere anonime a persone anonime che volevo conoscere. E quando inviavo quelle lettere al coordinatore del trapianto per spedirle a sua volta, la mia esile speranza era che loro mi rispondessero. Che mi notassero come aveva fatto lui.
Do un’occhiata oltre la mia spalla e lui è lì, sorridente, mentre raccoglie un girasole più alto di me, lo stelo che si portava dietro radici e tutto il resto.
“Sono Trent,” mi dice. “Mi sono appena trasferito in fondo alla strada. Tu devi vivere qui vicino, mi sbaglio? Ti ho vista passare correndo tutte le mattine, questa settimana. Sei veloce.”
Mi mordo il labbro inferiore mentre camminiamo. Sorrido, dentro di me. Provo a non confessare che ho riservato la mia velocità per il vialetto di fronte a casa sua ogni giorno da quando il furgone dei traslochi era entrato nella via e lui ne era uscito.
“Sono Quinn.” dico.
Respiro.
Scrivere quelle lettere mi faceva sentire come se riuscissi a respirare di nuovo. Scrivevo di Trent e di tutto ciò che mi aveva regalato quando era vivo: la sensazione che potevo fare qualsiasi cosa, la felicità, l’amore. Le lettere erano un modo per onorare la sua memoria, e una speranza per qualcosa in più. Una mano anonima che cercava di colmare il vuoto, in cerca di una connessione.
Una risposta.
Rido, perché è ancora senza fiato, e perché sembra non ricordarsi del girasole gigante che ciondola dalle sue mani.
“Oh,” dice, seguendo il mio sguardo, “questo sarebbe per te. Io…” Fa scorrere una mano nervosa tra i capelli. “Io, ehm, l’ho preso laggiù, vicino a quella recinzione.”
Me lo porge, e ride. È un suono che voglio sentire continuamente.
“Grazie,” rispondo. Allungo le braccia per prenderlo. Il suo primo rigalo in assoluto.
Ho ricevuto quattro risposte dalle persone a cui ha donato gli organi.
Dopo duecentottantadue giorni, molti botta e risposta, moduli di consenso e apposite consulenze di preparazione all’incontro, io e sua madre siamo andate insieme all’ufficio Servizi alla Famiglia del Donatore e ci siamo sedute fianco a fianco mentre aspettavamo che arrivassero, che potessimo incontrarli faccia a faccia.
Come Norah era stata la prima ad aprire la conversazione, è stata anche la prima anche ad allungare la mano verso di noi e, nonostante tutte le volte in cui ho immaginato di incontrarla, non ero per niente preparata alla sensazione che ho provato quando le ho stretto la mano e l’ho guardata negli occhi, sapendo che in lei c’era anche una parte di Trent. Una parte che le aveva salvato la vita e le aveva regalato la possibilità di essere la mamma della bimba dai capelli ricci che sbucava da dietro le sue gambe, e la moglie dell’uomo che piangeva, in piedi accanto a lei.
Quando ha respirato profondamente con i polmoni di Trent e si è portata la mia mano al petto in modo che io potessi sentirli contrarsi ed espandersi, il mio cuore si è contratto con loro.
La stessa cosa è successa con le altre persone che ho incontrato. Luke Palmer, più vecchio di me di sette anni, che ci ha suonato una canzone con la chitarra, e che poteva farlo solo perché Trent gli aveva donato un rene. C’era John Williamson, un signore sulla cinquantina tranquillo e cordiale, che ha scritto bellissime e poetiche lettere sul modo in cui la sua vita era cambiata da quando aveva ricevuto il trapianto di fegato, ma che non trovava le parole giuste con cui parlarci, in quella piccola sala ricevimento. E poi c’era Ingrid Stone, una donna i cui occhi azzurro chiaro erano così diversi da quelli castani di Trent, la quale grazie a loro poteva vedere il mondo di nuovo e dipingerlo sulle sue tele con colori vivaci.
Dicono che il tempo guarisca tutte le ferite, ma quel pomeriggio, incontrare quelle persone, una famiglia improvvisata tenuta insieme da un solo essere umano, mi ha guarita molto più di tutto il tempo che era trascorso fino a quel momento.
È questa la ragione per cui, quando giorno dopo giorno continuavo a non ricevere risposte dall’ultimo ricevente, ho cominciato a cercarlo. È questa la ragione per cui ho fatto delle ricerche, collegando appuntamenti con nuove storie e nuovi ospedali, fino a che non l’ho trovato, senza troppe difficoltà. Quasi non ci credevo. È anche la ragione per cui, di fronte a tutti gli altri, ho finto di comprendere il motivo per il quale non rispondeva. Il motivo per il quale, come la signora dei Servizi alla Famiglia del Donatore ci aveva spiegato, alcune persone non rispondono mai, ed è una loro scelta.
Mi sono comportata come se non pensassi a lui ogni giorno e come se non mi domandassi il perché della sua scelta. Come se avessi fatto pace con questo fatto. Ma quando sono sola, durante le ore infinite che tendono all’eternità, prima che venga mattina, arrivo sempre alla stessa verità: non lo accetto nemmeno un po’. E non so se ci riuscirò mai, a meno che non faccia questo.
Non so cosa ne penserebbe Trent, se lo sapesse. Cosa mi direbbe, se potesse in qualche modo vedere. Ma sono passati quattrocento giorni, e spero che capirebbe.
Per tantissimo tempo il suo cuore è appartenuto a me, ho solo bisogno di vedere dove si trova adesso.

A cura di Valentina Deguidi

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