Buongiorno amiche!
Per la rubrica #anteprime, oggi vi presenteremo un
libro che ci ha incuriosito molto! La copertina italiana non è ancora
disponibile, seguiteci sul blog oppure sulla pagina face book per avere delle
notizie sul dettagliate :)Di cosa sto parlando?
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Titolo: Insegnami a sognare
· Autore: Morgan Matson
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Casa Editrice: Newton Compton
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Pagine: 480
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Data uscita: 11 febbraio 2016
Trama:
Emily ha deciso di correre qualche rischio per
trascorrere l’estate più travolgente della sua vita. Prima di Sloane, Emily non
andava alle feste, parlava a malapena con i ragazzi, non aveva mai fatto niente
di folle. Ma Sloane, un vero e proprio “tornado sociale”, è la migliore amica
che si possa avere e l’ha tirata fuori dal suo guscio. Eppure, poco prima di
quella che doveva essere un’estate epica, Sloane... scompare. Lascia solo un
elenco di cose da fare: tredici bizzarri punti, come per esempio: Raccogliere
mele durante la notte. Va bene, abbastanza facile. Ballare fino all’alba.
Perché no? Baciare un estraneo. Che cosa?! Ma senza Sloane, Emily potrà
farcela? Chissà cosa potrà succedere, con tutta un’estate davanti e
l’inaspettato aiuto dell’affascinante Frank Porter...
Capitolo 1
La lista arrivò due settimane dopo che Sloane era
partita.
Non ero a casa per riceverla, infatti mi trovavo a
casa di Sloane, dove ero andata per l’ennesima volta, sperando con tutta me
stessa di trovarla lì. Mentre guidavo verso casa sua, con l’iPod spento e le
mani saldamente aggrappate al volante, decisi che se l’avessi trovata, non
avrei nemmeno avuto bisogno di una spiegazione. Non sarebbe stato necessario
che mi spiegasse perché da un momento all’altro aveva smesso di rispondere alle
chiamate, agli sms e alle e-mail, o perché era svanita nel nulla, con i suoi
genitori e la loro auto. Sapevo che era ridicolo pensarla così, come se stessi
negoziando con un qualche spacciatore cosmico che mi potesse garantire questo
patto, ma questa consapevolezza non mi fermava, mentre mi avvicinavo sempre di
più a Randolph Farms Lane. Non mi importava quello che avrei dovuto promettere,
se significava che Sloane ci sarebbe stata. Perché se avessi trovato Sloane,
tutto avrebbe ricominciato ad avere senso.
Non esageravo se dicevo che le ultime due settimane
erano state le peggiori della mia vita. I miei genitori mi avevano trascinato a
nord del Pese, contro la mia volontà e nonostante le mie proteste. Quando ero
tornata a Stanwich, dopo fin troppi negozi di antiquariato e gallerie d’arte,
l’avevo chiamata immediatamente, chiavi dell’auto in mano, aspettando
impazientemente che lei mi rispondesse e che mi dicesse dove fosse, o, nel caso
in cui si trovasse a casa, che potevo andare a prenderla. Ma Sloane non rispose
al telefono, e non rispose quando provai a richiamarla un’ora dopo, o più tardi
quella sera, o prima di andare a dormire.
Il giorno dopo guidai fino a casa sua solo per
vedere che la macchina dei suoi non c’era più e che le serrande erano abbassate.
Lei continuava a non rispondere ai messaggi e nemmeno alle chiamate, che
venivano trasferite direttamente alla segreteria telefonica, ma non ero
preoccupata, non ancora. Succedeva spesso che Sloane lasciasse scaricare
completamente la batteria del telefono, fino a che questo non si spegneva, e
sembrava che non sapesse mai dove fosse il caricabatteria. E i suoi genitori,
Milly e Anderson, avevano l’abitudine di dimenticarsi di comunicarle i loro
piani per le vacanze. La portavano in posti come Palm Beach o Nantucket, e
Sloane tornava qualche giorno dopo, abbronzata, con un regalo per me e molte
storie da raccontare. Ero sicura che sarebbe andata così anche quella volta.
Ma dopo tre giorni e ancora nessuna risposta, mi
preoccupai. Dopo cinque giorni, mi feci prendere dal panico. Quando non riuscii
più a sopportare di stare a casa mia a fissare il telefono sperando che
squillasse, cominciai a guidare per la città, ad andare in tutti i nostri
posti, riuscendo sempre ad immaginarla lì, fino a che non ci arrivavo e non la
trovavo. Non era sdraiata al sole su un tavolo da picnic all’Orchard, né a dare
una scorsa agli sconti del TwiceUpon a Time, né stava finendo la sua fetta di
pizza all’ananas al Capitan Pizza. Se n’era semplicemente andata.
Non avevo idea di cosa fare. Era raro, per noi, non
vederci quotidianamente, e parlavamo e ci scambiavamo messaggi costantemente,
senza argomenti tabù o off-limits, perfino scambi come: “Penso di sembrare
Amish con la mia nuova gonna, mi prometti che se è così me lo dici?” (Io), e:
“Hai notato che è da un po’ di tempo che nessuno vede il mostro di LochNess?”
(Lei). Nei due anni in cui eravamo state migliori amiche, avevo condiviso con
lei quasi tutti i miei pensieri e le mie esperienze, e l’improvviso silenzio
era assordante. Non sapevo cosa fare se non continuare a inviarle messaggi e
provare a trovarla. Continuavo ad allungare il braccio verso il telefono per
dire a Sloane che stavo avendo difficoltà a gestire il fatto che non stava
rispondendo.
Inspirai e trattenni il fiato mentre entravo nel suo
vialetto, nello stesso modo in cui facevo da piccola quando dovevo aprire il
mio ultimo regalo di compleanno, sperando che si trattasse di quella cosa che
ancora non avevo, l’unica cosa che desideravo.
Ma il vialetto era vuoto, e tutte le serrande
abbassate. Accostai lo stesso di fronte alla sua casa, parcheggiai e spensi al
motore. Mi stravaccai sul sedile, combattendo per ingoiare il nodo che mi si era
formato in gola. Non sapevo più cosa fare, dove altro cercare. Ma Sloane non
poteva essersene andata. Non sarebbe mai partita senza dirmelo.
Ma allora dov’era?
Quando sentii di essere sull’orlo delle lacrime,
uscii dall’auto e osservai la casa strizzando gli occhi per via del sole del
mattino. Il fatto che fosse vuota così presto era davvero l’unica prova di cui
avevo bisogno, dal momento in cui sapevo che Milly e Andreson non si
svegliavano mai prima delle dieci. Pur sapendo che probabilmente non aveva
senso, attraversai il vialetto fino alla casa, e camminai sui larghi gradini di
pietra coperti da estive foglie verde brillante. Ce n’erano talmente tante che
dovevo spostarle a calci, e sapevo, nel profondo, che era una prova in più del
fatto che in casa non c’era nessuno da un po’. Ma camminai verso la porta
frontale, con i battenti in rame a forma di testa di leone, e bussai comunque,
come avevo fatto già altre cinque volte solo quella settimana. Aspettai,
provando a sbirciare dal vetro sul lato della porta, con ancora un barlume di
speranza che in un secondo, da un momento all’altro, avrei sentito i passi di
Sloane correre verso l’entrata, lanciarsi ad aprire la porta, strattonarmi in
un abbraccio e cominciare a parlare a un chilometro al minuto. Ma l’abitazione
era silenziosa, e tutto quello che riuscivo a scorgere attraverso il vetro era
la placca che indicava la rilevanza storica della casa, quella che la
proclamava “uno dei tesori architettonici di Stanwich”, quella che sembrava
sempre coperta di ombre di impronte.
Aspettai ancora qualche minuto, per ogni
eventualità, poi mi voltai e mi abbassai, sedendomi sul gradino più alto,
provando duramente a non cedere ad un esaurimento nervoso in mezzo alle foglie.
Esisteva una parte di me che stava ancora sperando
di scoprire che tutta la situazione era solo un incubo molto realistico, e che
da un momento all’altro mi sarei svegliata, e Sloane sarebbe stata lì,
dall’altra parte del telefono dove dovrebbe essere, a pianificare la nostra
giornata.
La casa di Sloane era in quello che era sempre stato
noto come “zona isolata”, in cui le case diventavano sempre più grandi e più
lontane tra loro, in un pezzo di terra sempre più grande. Distava quindici
chilometri da casa mia che, quando ero all’apice della mia forma fisica, erano
facili da percorrere correndo. Ma nonostante abitassimo poco distanti, i nostri
vicinati non avrebbero potuto essere più diversi tra loro. A casa sua le auto
passavano solo occasionalmente, e il silenzio sembrava sottolineare il fatto
che ero completamente da sola, che non c’era nessuno in casa e, molto
probabilmente nessuno sarebbe tornato. Mi sporsi in avanti, lasciando cadere i
capelli davanti a me come una tenda. Il fatto che non ci fosse nessuno
significava che almeno potevo rimanere per un po’, e che nessuno mi avrebbe
chiesto di andarmene. Probabilmente avrei potuto restare per tutto il giorno.
Onestamente, non avrei proprio saputo che cos’altro fare.
Sentii il basso rombo di un motore e alzai lo
sguardo, velocemente, togliendomi i capelli dal viso, avvertendo ancora una
volta un bagliore di speranza nel mio petto. Ma l’auto che entrava lentamente
nel viale non era la BMW leggermente ammaccata degli Anderson. Era un pick-up
giallo, sul retro del quale erano ammucchiati tagliaerba e rastrelli. Quando
accostò di fronte ai gradini, riuscii a leggere la scritta sul lato, in corsivo
stilizzato. Progettazione di Giardini di
Stanwich, diceva. Semina…
giardinaggio… mantenimento… e molto, molto altro!Sloane adorava quando i
negozi avevano nomi o slogan dozzinali. Non che lei fosse una grande fan dei
giochi di parole, ma diceva sempre che le piaceva immaginarsi i proprietari
mentre li inventavano, e quanto erano soddisfatti di se stessi dopo aver
trovato una qualsivoglia soluzione. Immediatamente, mi annotai mentalmente di
raccontare a Sloane del motto, e poi, un secondo dopo, realizzai quanto fosse
stupido.
Tre ragazzi scesero dal furgone e si diressero verso
il suo retro, e due di loro cominciarono a tirare giù l’attrezzatura. Sembravano
più vecchi di me, probabilmente erano al college, e mi immobilizzai,
guardandoli. Sapevo che quella era un’opportunità per provare a ricavare
qualche informazione, ma questo avrebbe significato parlare con quei ragazzi.
Ero timida fin dalla nascita, ma negli ultimi due anni era stato diverso. Con
Sloane al mio fianco, era come se improvvisamente avessi una rete di sicurezza.
Era sempre capace di prendere in mano la situazione se lo volevo, e se non
volevo, sapevo che lei sarebbe stata accanto a me, correndo in mio aiuto nel
caso in cui fossi andata nel panico o se fossi stata sconvolta. E quando ero da
sola, l’imbarazzo o il fallimento delle mie interazioni non sembravano contare
poi così tanto, dal momento in cui sapevo che sarei riuscita a imbastire una
storia sulla quale, in seguito, avremmo potuto ridere insieme. Senza di lei
accanto a me, però, stava diventando sempre più evidente quanto io fossi
terribile a gestire situazioni come questa da sola.
“Ehi.” Sobbalzai, accorgendomi che uno dei
giardinieri si stava rivolgendo a me. Mi stava guardando, riparandosi gli occhi
dal sole, mentre gli altri due sollevavano un tosaerba. “Vivi qui?”
Gli altri due ragazzi appoggiarono l’attrezzo al
suolo, e realizzai che conoscevo uno li loro; era nella mia stessa classe di
Inglese, l’anno prima, il che rendeva le cose ancora più difficili. “No”,
dissi, e mi accorsi di quanto la mia voce suonasse stridula. Nelle ultime due
settimane avevo detto solo le cose più superficiali ai miei genitori e al mio
fratello minore, e le uniche conversazioni che avevo davvero avuto erano con la
segreteria telefonica di Sloane. Mi schiarii la voce e riprovai. “Non vivo
qui.”
Il ragazzo che mi aveva parlato alzò le
sopracciglia, e io seppi che era il mio segnale d’azione. Ero, almeno nelle
loro teste, un’intrusa, e probabilmente stavo intralciando il loro lavoro.
Tutti e tre i ragazzi mi stavano fissando, aspettando chiaramente che me ne
andassi. Ma se avessi lasciato la casa di Sloane, se avessi ceduto a questi
sconosciuti in maglietta gialla, da chi avrei ottenuto più informazioni?
Significava che stavo semplicemente accettando il fatto che se ne fosse andata?
Il ragazzo che mi aveva rivolto la parola incrociò
le braccia al petto, guardandomi impaziente, e sapevo che non potevo rimanere seduta
dov’ero. Se Sloane fosse stata con me, sarei stata capace di parlare con loro.
Se ci fosse stata, probabilmente avrebbe già salvato due dei loro numeri di
telefono e starebbe cercando di ottenere un giro sul tosaerba, e chiedendo di
potervi tosare il suo nome. Ma se ci fosse stata Sloane, nulla di tutto ciò
starebbe accadendo. Le mie guance si infiammarono non appena mi spinsi per
alzarmi in piedi e scesi velocemente i gradoni, le infradito che mi facevano
scivolare sulle foglie, ed io che mi raddrizzavo prima di inciampare, per
evitare di rendere la situazione ancora più imbarazzante. Feci un cenno ai
ragazzi, poi diedi un’occhiata alla strada mentre raggiungevo la mia auto.
In quel momento, in cui me ne stavo andando, si
misero in azione, distribuendo attrezzi e discutendo su chi dovesse occuparsi
di cosa. Afferrai la maniglia della portiera, ma non la aprii subito. Me ne
sarei andata sul serio? Senza nemmeno tentare?
“Quindi,” dissi, ma non abbastanza forte, e infatti
i ragazzi non mi prestarono attenzione, ma continuarono a parlare tra loro, due
di loro litigando su chi dovesse fertilizzare il giardino, mentre il tizio del
corso di Inglese dell’ultimo anno teneva in mano il suo berretto da baseball e
piegava la fattura in una curva. “Quindi,” dissi, ma troppo forte questa volta,
e i ragazzi smisero di parlare e mi guardarono di nuovo. Riuscivo a sentire le
mie mani sudare, ma sapevo di dover andare avanti, che non mi sarei mai
perdonata se mi fossi voltata e me ne fossi andata. “Mi stavo… ehm…” Feci un
respiro profondo. “Una mia amica viveva qui, e la stavo cercando. Voi…”
Improvvisamente mi resi conto, come se stessi guardando la scena in TV, di
quanto probabilmente tutta la situazione fosse ridicola, chiedere ai
giardinieri delle informazioni su dove si trovasse la mia migliore amica. “Voglio
dire, vi hanno assunti per questo lavoro? I suoi genitori, voglio dire? Milly o
Anderson Williams?” Nonostante stessi cercando di non farlo, mi stavo
aggrappando a questa possibilità, trasformandola in qualcosa che potessi
capire. Se gli Williams avevano assunto la Stanwich Giardinaggio, forse stavano
semplicemente facendo una gita da qualche parte, lasciando che qualcuno si
prendesse cura del giardino mentre non c’erano, in modo che non dovessero
preoccuparsene loro. Era solo una lunga gita, ed erano andati in qualche posto
in cui i telefoni non prendevano e non c’era servizio e-mail. Ecco tutto.
I ragazzi si guardarono l’un l’altro, e sembrava che
nessuno dei nomi che avevo pronunciato accendesse loro unalampadina. “Mi
spiace,” disse il ragazzo che mi aveva parlato per primo. “Noi riceviamo
soltanto l’indirizzo. Non sappiamo nulla di quella roba.”
Annuii, sentendo di aver esaurito l’ultima riserva
di speranza. Pensandoci su, il fatto che i giardinieri si trovassero a casa sua
era in effetti un po’ nefasto, in quanto non avevo mai visto Anderson mostrare
il più leggero interesse nei confronti del loro prato, nonostante il fatto che
la Società Storica di Stanwich lo infastidisse per assumere qualcuno che stesse
dietro alla proprietà.
Due dei ragazzi si erano avviati verso il lato della
casa, e quello del mio corso di Inglese mi guardò, mentre si rimetteva il
berretto da baseball. “Ehi, tu sei amica di Sloane Williams, giusto?”
“Sì,” dissi immediatamente. Era questa la mia
identità a scuola, ma non mi era mai dispiaciuto, e non ero mai stata più
felice che in quel momento di essere riconosciuta in quel modo. Magari lui
sapeva qualcosa, o aveva sentito qualcosa. “In realtà è Sloane che sto
cercando. Questa è casa sua, quindi…”
Il ragazzo annuì, poi alzò le spalle dispiaciuto.
“Mi spiace, non ne so niente,” disse. “Spero che la trovi.” Non mi chiese quale
fosse il mio nome, ed io non glielo dissi. Perché avrei dovuto?
“Grazie,” riuscii a dire, ma un secondo troppo
tardi, in quanto lui aveva già raggiunto gli altri due. Guardai la casa ancora
una volta, la casa che in qualche modo sembrava non appartenere più a Sloane, e
realizzai che non mi restava altro da fare se non andarmene.
Non andai subito a casa; invece mi fermai in un bar
a Stanwich, con l’ultimissima speranza di trovarvi una ragazza nell’angolo, i
capelli raccolti in uno chignon disordinato sorretto da una mattina, che
leggeva un romanzo inglese che usa le lineette al posto delle virgolette. Ma
Sloane non c’era nemmeno là. E mentre tornavo all’auto, realizzai che se fosse
stata in città, sarebbe stato impensabile che non mi richiamasse. Erano passate
due settimane; c’era qualcosa che non andava.
Stranamente, questo pensiero mi tenne a galla fino a
che non raggiunsi casa. Ogni mattina in cui partivo da casa mia, i miei
genitori davano per scontato che avrei incontrato Sloane, e se mi chiedevano
che programmi avessi, rispondevo vaga qualcosa rispetto a cercare lavoro. Ma
sapevo che era arrivato il momento di dire loro che ero preoccupata; che avevo
bisogno di sapere cosa stava succedendo. Dopotutto, forse loro sapevano
qualcosa, anche se i miei e i suoi non erano così intimi. La prima volta che si
incontrarono, Milly e Anderson erano venuti a prendere Sloane dopo che aveva
dormito da me, con due ore di ritardo rispetto all’accordo. E dopo aver
scambiato i convenevoli e aver salutato Sloane, mio padre aveva chiuso la porta, si era voltato verso mia madre, e aveva grugnito,
“È stato come essere bloccati in un’opera di Gurney.” Non avevo capito cosa
intendesse con questo commento, ma potevo dire dal suo tono di voce che non si
trattava di un complimento. Ma anche se non erano amici, i miei avrebbero
comunque potuto sapere qualcosa. O sarebbero stati capaci di scoprire qualcosa.
Traduzione
a cura di Valentina Deguidi
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